AVA … come lava!

di Christian Marchetto

 

 

Oppio-Colnaghi, il nome della via mi era rimasto impresso leggendo il libro su Ernesto Lomasti.
Voi mi direte, ma chi era costui?
Era un fortissimo alpinista solitario strappato alla vita all’età di soli vent’anni seguendo la sua passione più grande, l’arrampicata. Un fuoriclasse del suo tempo prematuramente scomparso proprio durante una delle tante salite solitarie. Oppio e Colnaghi sono invece i primi salitori della parete nord del Pizzo d’Uccello, una delle vie più famose delle Alpi Apuane.
Ero sotto il tendone che in Piazza Fiera ospita Montagnalibri, rassegna dell’editoria inserita nel famosissimo TrentoFilmfestival; girando per gli scaffali una copertina di Meridiani Montagne ha attirato la mia attenzione: era ancora lei, la Parete, e casualmente mi sono messo a discorrere con un giovane mai visto prima che aveva intenzione di salire la via nell’imminente estate. Tutto è iniziato così, per caso; ma non traete considerazioni affrettate, questo racconto non parlerà di alpinismo. Questa è una storia che deve ancora venire. Ho comprato la monografia e l’ho letta tutta d’un fiato.

Si parlava di Apuane, il massiccio montuoso stretto tra Lunigiana, Versilia e Garfagnana, terra di castagne.
Già, un luogo quest’ultimo legato all’infanzia, dove andavo con mio cugino al Colletto, un piccolo podere abbarbicato come tutti i piccoli paesi su di un poggio.
Ricordo boschi verdissimi e valli profondamente scavate da magri torrentelli, che però durante la stagione delle piogge causano pure delle alluvioni, ricordo che da lì si vedevano delle montagne, bianche, ma non era neve.
Nella pubblicazione si parlava di tutto un po’, del parco con le cave di marmo, di castagne e bicicletta, di roccia e anche di grotte, pastori e lizzatori, di trekking a cavallo e di un viaggio a piedi.
Ed è così, leggendo, che è nata l’idea di vedere di persona i luoghi raccontati, di viverne lo spirito, quello delle “Alpi in miniatura” (cfr. la guida escursionistica della Sezione CAI di Firenze del 1876).
Così vennero definite dai primi esploratori, il botanico Targioni Tozzetti, Simi, Giordano e poi gli alpinisti, gente del calibro di Freshfield, Tukett, ecc.
Un viaggio, ecco l’idea!
La relazione c’era, la cartografia pure, una breve ricerca in internet non aveva dato grandi risultati, la traversata evidentemente era per pochi. C’era solo un problema, sette giornate di ferie erano troppe per abbandonare lo studio. Ho elaborato quindi un percorso personalizzato di soli tre giorni, con delle varianti per evitare grandi dislivelli e con modifica delle tappe proposte.
Ne è nata una fantastica avventura che mi ha fatto conoscere luoghi affascinanti e regalato emozioni indimenticabili.
 

Siamo partiti di buon’ora, non per un erto sentiero, ma per portare una macchina alla fine della traversata, nel piccolo Borgo di Stazzema, famoso per la chiesa trecentesca di Sant’Angelo.
Abbiamo quindi risalito tutta la Versilia, nel caldo, col traffico, e la gente.
E poi su, verso Massa, Castelpoggio e Campo Cecina in coda a due grossi camion da cava.
Qui abbiamo lasciato la seconda macchina.
La partenza era fissata già in quota, nei pressi del Rif. Carrara, a metà del giorno.
Un ultimo sguardo al panorama, da una parte una valle devastata dalle cave sopra Carrara col mare in lontananza, dall’altra gli Appennini verdi e rigogliosi.

Un’aggiustatina allo zaino, che pesa il giusto e poi via, quasi increduli per ciò che ci attende, su per il grande prato del Sagro. Inizia così un continuo divenire di crinali, panorami e paesaggi, a volte su verdi prati a volte attraverso fitti boschi di faggio, talmente fitti che vedi solo alberi, ove il tempo si dilata ed il camminare quasi sempre in piano diventa leggero. A volte si passa sul crinale verso il mare, da dove salgono i “calivi”, come da noi, le nebbie del vapore di condensa e dove sprofondano valloni selvaggi che possiamo solo immaginare.

 

 

Ci aspettiamo da un momento all’altro che compaia il famoso pastore-poeta Rolando che ci recita una poesia.

Ma attraversiamo anche un bosco di abete bianco, triste e monotono, probabilmente perché piantato e non naturale.
Non abbiamo orari, ma teniamo un buon passo per verificare se i tempi della guida sono giusti, con un occhio sempre alla cartina per verificare di non saltare qualche bivio e trovarsi dispersi per la Garfagnana.
I rifugi sul percorso sono ancora chiusi e non troviamo nessuno, manco una pecora.
Raggiungiamo la vetta del Grondilice, la massima elevazione della giornata: 1805 metri. Passiamo sotto al Pisanino, la vetta più alta delle Apuane.
La nostra meta di oggi è arrivare per ora di cena al bivacco Aronte, nei pressi del Passo della Focolaccia, famoso per la presenza di una contestatissima cava che ne ha irrimediabilmente trasformato lo sky line.
Io resto però affascinato dal susseguirsi delle varie formazioni rocciose incontrate durante la giornata, rocce antichissime sovrapposte ai più giovani calcari, scisti dove l’occhio attento mi permette di trovare l’acqua, bene così prezioso ma anche così sfuggevole in Apuane benché piova moltissimo, in media 2500 mm l’anno, ma che scompare velocemente tra le pieghe dei monti, un vero e proprio serbatoio naturale ricco di abissi tutt’ora inesplorati.
E dall’ incredibile contrasto col marmo bianchissimo delle cave.
Che pace e che silenzio, non ho orologio e il cellulare non ha campo, preparo la cena che consumiamo con vista sul mare, chi sta meglio di noi.

Il Bivacco Aronte (non Caronte, quello di dantesta memoria) è stato costruito nel 1902 ed ha una forma curiosa, come di quelli che si vedono da noi sulle alpi, ma è fatto in muratura; è stato per decenni il punto base per le avventure alpinistiche dei pionieri che arrampicavano sulle cime circostanti.
Il risveglio è inconsueto per un luogo così bello, arriva il primo camion da cava che scollina e si alza nel cielo lo sbuffo nero di un generatore a gasolio. Lasciamo quindi presto il nostro bivacco, ci aspetta una lunga giornata con ben 20 km da percorrere con numerosi saliscendi. Guadagniamo la vetta della Tambura in pieno sole, ammirando verso mattina la cresta della Roccandagia e l’ altopiano carsico tutto a catini della Carcaraia, dove c’è ancora neve.

Scendiamo al Passo della Tambura e imbocchiamo la famosa via Vandelli un’imponente strada costruita nel XVIII secolo per collegare Massa a Modena ma che fu da subito pericolosissima, specie col ghiaccio.
Risaliamo per sentiero selciato nell’immancabile bosco di faggi fino al Passo Sella, che per i prati verdeggianti pieni di narcisi selvatici assomiglia vagamente all’omonimo alpino.
Da qui la nostra meta si può ancora solo immaginare, nascosta dietro due catene di montagne.
Proseguiamo per costa erbosa e per cresta a pinnacoli per scendere al Passo del Vestito, dove troviamo un’inquietante aura di mistero ed un che di spettrale.
Imbocchiamo la marmifera che taglia tutto il versante Nord dell’Altissimo e grazie ad un tunnel sbuchiamo sul versante opposto, non prima di aver atteso un’oretta che quietasse il tipico temporale pomeridiano delle Apuane (anche questo in miniatura…). La stanchezza inizia a farsi sentire ed i piedi reclamano di essere liberati, ma proseguiamo fiduciosi verso il Colle Cipollaio, il Passo di Croce, aggiriamo le Torri del Corchia, ci infiliamo nella boscosa valle che porta, finalmente, al rifugio del Freo alla foce di Mosceta giusto per ora di cena, tutto come previsto.
 

Costruito dal CAI di Viareggio nel 1920 è la base ideale per le escursioni sul Corchia e nel gruppo delle Panie.
Una buona cena e soprattutto un letto col materasso sembrano un lusso, con la chiassosa compagnia di un gruppo di giovani del CAI di Rieti. Il riposo oggi è veramente meritato.
Un altro giorno ci saluta, ma indugiamo al sole del mattino, oggi tappa breve che ci porterà verso il piano.
Lasciamo alle spalle la verde foce della Mosceta e risaliamo le pendici della Pania Secca fino alla Costa Pulita, ove pascolano liberi dei magnifici cavalli.
Attraversiamo un simpatico boschetto di carpini fino al Monte Forato, col singolare foro naturale di ragguardevoli dimensioni. Siamo giusto all’ora di pranzo ed oltre ad un panino ci concediamo addirittura un caffè.
La discesa prosegue verso il Procinto e d’improvviso, lasciata alle spalle la foce di Petrosciana (qua le forcelle di chiamano tutte foci) il sentiero si fa più largo ed il bosco inizia a cambiare, il faggio lascia il posto al castagno, segno che ci stiamo abbassando di quota, verso il caldo e verso la civiltà.
Una lunga e scivolosa discesa selciata ci riporta in quel di Stazzema; il viaggio, ahimè, è finito.
Siamo di nuovo sull’asfalto, un ultimo tratto fra le strette vie del piccolo borgo ed i piedi riguadagnano finalmente la libertà. Non ci resta che recuperare la macchina, accendere il cellulare e tornare verso casa.
Ma un’ultima cosa ci resta da fare dopo questa incredibile avventura: scendere fino al piano, mangiare un gelato e bagnare i piedi nel mar Tirreno, grandioso!

Christian Marchetto
Alta Via delle Apuane – giugno 2010