a "Bivacchi, strutture al servizio degli alpinisti/escursionisti o case vacanza?"
di Claudio Prà
C'erano una volta i bivacchi utilizzati come strutture di emergenza in
caso di bisogno o come punti d’appoggio per chi si trovava in quota per
attività legate alla montagna (traversate, arrampicate ecc.), strutture
dove di tanto in tanto anche qualche semplice appassionato si fermava
per passarci la notte dopo un'escursione.
Erano i tempi lontani dall’overtourism e dell’alta quota cercata
esclusivamente da chi l’amava sul serio, gente rispettosa ed esperta
dell'ambiente in cui si muoveva.
Oggi tutto è cambiato e l'uso moderno e distorto che si fa dei bivacchi
è spesso al centro di discussioni. Riassumendo l’attuale situazione
potremmo dire che si è affermata una moda, alimentata in special modo
dai social, che spinge al pernotto nei ricoveri, un’experience (come la
si chiama oggi) tutta da vivere.
Spesso non è più una vetta la meta, ma proprio il bivacco, da dove
postare un selfie trandy vantandosi di aver pernottato e magari fatto
festa in compagnia.
Non vale ovviamente per tutti, ma questi probabilmente sono i veri
motivi che spingono tanta, troppa gente fin lì. Niente di male dirà
qualcuno, se non fosse che i bivacchi sarebbero concepiti, come già
ricordato qualche riga sopra, a strutture di emergenza o punti di
appoggio.
Questo cambio di destinazione, perché è di questo che si tratta, con
processioni impressionanti in cammino verso i vari ricoveri (al
Margherita Bedin, provvisto di nove posti letto, incontrate cinquanta persone che
intendevano passarvi la notte), stravolge il motivo per cui sono nati.
Ci sono veri e propri usufruitori seriali di bivacchi, che si fermano
anche per più giorni, impedendo a chi ne ha veramente bisogno di
programmare l'uso della struttura.
La regola, ma solo di buonsenso, reciterebbe che questi ultimi avrebbero
la precedenza sugli altri che dovrebbero cedergli il posto. Ma figurarsi
se viene rispettata da gente che probabilmente non sa neanche che esista
un tale regola o che la rifiuta. E qui ci si collega al discorso della
modificata frequentazione della montagna negli ultimi anni, con l'arrivo
in quota di tante persone assolutamente digiune di una minima cultura
montana, spesso impreparate, che se il gps non gli funziona sono persi
perché nemmeno sanno cos'è una cartina.
Quelli che le immondizie lasciate sul posto passerà qualche volontario
per portarle a valle, che non si prendono la briga di informarsi su un
mondo fragile di cui sanno poco o nulla e che per loro va solo sfruttato
seguendo una moda. Le loro uniche fonti sono Youtube, FB o Istagram.
Questi nuovi "appassionati" si impadroniscono dei bivacchi come se la
cosa fosse normale, dando vita a una forma di nuovo turismo montano.
Vagli a spiegare che non è quello l'uso che se ne dovrebbe fare...
Ti danno dell'antiquato (boomer secondo il loro linguaggio), che non si
adegua alle moderne esigenze.
Dicevo all'inizio che di questa problematica si parla da qualche anno,
ma al di là di tanti sfoghi e belle parole non si vede soluzione.
Ormai diamo per scontato che debba andare così?
Non c'è proprio nulla che si possa fare?
Diamo per assodato che i bivacchi si trasformino in dormitoi per turisti
in cerca di emozioni?
Il CAI, proprietario delle strutture e a cui sono associato, come la
pensa in proposito?
Vale ancora la pena installare o rimodernare bivacchi in luoghi
relativamente facili da raggiungere sapendo l'uso che se ne fará o è
meglio concentrarsi esclusivamente su quelli che sorgono in luoghi
isolati e lontani che ne giustificano la presenza?
Il recente posizionamento di un bivacco sul Pelmo, in questo contesto,
fa riflettere.