a "Palaronda Ultratrail alle Pale di San Martino" di Francesco Pompoli

di Angelo Bolognesi


Premesso, doverosamente, che non ho nulla contro la corsa in montagna, né in altro luogo della galassia, così come non ho nulla nemmeno nei confronti del signor Francesco Pompoli, che conosco appena, ammetto di far parte di coloro i quali arricciano il naso di fronte ai vari Trail, Supertrail e Ultratrail in qualsiasi versione, hard, rock, iron o giù di lì.
Dato che la legittimità di esistere non è in antitesi con l'esercizio del giudizio e che questo per prima cosa, significa imparare a capire e a distinguere, provo a spiegare la mia posizione.

Non mi piacciono le manifestazioni sportive di quel tipo perchè non amo la spettacolarizzazione in sé e in particolare in ambiente montano; non amo la tendenza a rendere competitivo tutto; non amo i cartelloni delle ditte di abbigliamento sportivo sbattuti sulle forcelle, sulle guglie, sulle creste; né le classifiche da stilare, i record da battere, i tempi da migliorare, le difficoltà da superare ad ogni costo.
A parte il fatto che sembra proprio non si riesca a vivere senza il fardello della competizione che già portiamo ogni giorno, viene da chiedersi se continuando a ridurre la montagna ad un enorme Luna Park agonistico, ci fermeremo solo quando camosci e marmotte venderanno bibite e noccioline al pubblico festante o se, anche in quel caso, continueremo imperterriti.

Leggere l'introduzione al bel racconto di Francesco Pompoli, che ringrazio per le splendide foto con le quali accompagna sempre i suoi testi di cui sono un appassionato lettore, mi ha fatto tornare in mente il vecchio marinaio di Coleridge il quale, colpito dalla maledizione dell'albatros, ci afferra per il bavero della giacca e ci fa ascoltare il suo allucinato racconto. Tu non sai quant'è bello coprire 20.000 metri di dislivello, non sai quant'è eccitante rischiare di disidratarsi, quant'è ganzo alzarsi alle due di notte per percorrere 100 chilometri di corsa staccando pure un paio di giovanotti di belle speranze che non reggono il tuo passo e, ammirati, ti guardano allontanarti all’orizzonte nonostante tu abbia il doppio o il triplo dei loro anni e così via.

Pascal sosteneva che tutti i guai del mondo derivano dal fatto che la gente non vuole starsene a casa propria. Punti di vista. Non mi sento così estremo. Però, scrivendo, mi è tornato in mente un fatto che può aiutarmi a farmi capire meglio. Molto anni fa andai a visitare una mostra di dipinti del famoso pittore bolognese Morandi.
In genere i visitatori delle mostre chiacchierano, bisbigliano, a volte danno pure fastidio.
Beh, a quella mostra non si sentiva un sospiro. Erano silenziosissimi. Incuriosito, ho espresso la mia perplessità ad un amico che, a differenza di un ignorante come me, si muoveva e si muove tutt'ora con elegante sapienza e disinvoltura nell'affascinate mondo della Pittura, il quale mi ha illuminato sul perchè.
Disse: “Morandi non ha dipinto fiori, tavoli, bottiglie. Ha dipinto la meditazione, come Cezànne con le sue mele”.

Dunque, si possono esprimere concetti anche importanti attraverso cose semplicissime e quotidiane come le bottiglie di Morandi o le mele di Cezànne. Chiederò allora aiuto proprio alle mele per esprimere meglio il mio pensiero.
C’è la mela di Saffo “che rosseggiava sul ramo eccelsa, alta sul più alto”, non già perché i raccoglitori l'avessero trascurata, non per questo, soltanto perché “non potevano raggiungerla”.
E ci sono le mele del poeta americano Robert Frost, quelle che sono rimaste sull’albero dopo la sua raccolta, il suo “Apple-Picking” “forse due o tre mele, che non ho colto in qualche ramo, ma di cogliere mele ora ho finito”.

Preferisco queste.
Tutto qui.

Bibò