a "A me basta somigliare al più misero dei portatori nepalesi" di Paolo Rumiz
di Danila Avesani
Gentile redazione,
vi scrivo da Verona e sono una lettrice piuttosto recente del vostro
sito.
Innanzitutto mi complimento con voi per la varietà di ciò che
pubblicate, al di là delle ricognizioni di vie e sentieri di montagna
che, sicuramente, rimangono centrali nelle vostre pagine, eppure spesso
danno il via a pensieri e riflessioni più generali, che dalla montagna
prendono semplicemente il là.
Vorrei segnalarvi un'impressione che, da novella lettrice, gradirei
condividere con voi.
Qualche tempo fa, un vostro lettore vi ha inviato
un articolo del giornalista Paolo Rumiz, che esprime un'idea forte
sul suo modo di sentire la montagna. In buona sostanza, la montagna non
come luogo in cui superare i propri limiti, ma luogo dove, quei limiti
del tutto personali, perdono d'importanza.
Mi sarei aspettata una reazione e un confronto da parte dei lettori, con
tesi anche opposte a quelle del giornalista. Un confronto anche ampio su
ciò che, la montagna, significa per ognuno.
Mi sorprende che, all'oggi, tutto taccia, il che, lo confesso, trovo sia
un peccato per un sito come questo.
Non sarà che un certo "letargo" ci sta avvolgendo tutti?
Oppure sbaglio?