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SPIGOLATURE.
18/05/2011 -
Umberto Marampon è l'alpinista "Prigioniero della bellezza"

 

Prigioniero della bellezza
(Umberto Marampon, l’uomo dei tetti)

Articolo di Caterina Serco

Lo incontro al Ristorante dalla Mena, in Valle Santa Felicita, in occasione di una serata organizzata dall’associazione di Bassano Dimensione Montagna.
Non vuole dirmi la sua data di nascita.
Dicembre il mese e una sessantina gli anni.
Va da sé, la gente lì lo conosce!
Non vuole perché "il compleanno è un fatto personale, non se ne parla e lo si festeggia da soli!". Non insisto.
E' Umberto Marampon e lo si sa: é un personaggio!
Lo chiamano Rampegon, Marampa, o semplicemente Berto.
Ha al proprio attivo l'apertura di una quarantina di vie in artificiale. E' l'uomo dei tetti, l'uomo che sale usando staffe e chiodi a pressione.
Si schernisce, sorride ammiccando, fa un po' il prezioso, ma poi decide che "sì, non è male fare quattro chiacchiere con te".
Ci siamo già incontrati qualche anno fa sulle pareti della sua valle, la Santa Felicita, dove ha trascorso la bellezza di 37 anni. Tra il mio materiale da roccia c'è la staffa che Berto mi regalò quel giorno; una 4 gradini in alluminio uniti da un cordino blu, azzurro e arancione.
Staffe moderne? Ma nemmeno per sogno!
Berto usa ancora il modello tradizionale: abbinate alle scarpe da tennis Superga bianche funzionano che é una meraviglia. I ganci per appendersi, a forma di grande uncino, e i chiodi fatti a mano completano la sua personalissima attrezzatura.

E ci siamo già visti al CAI di Padova l’anno scorso, durante una serata organizzata nell’ambito del corso di arrampicata artificiale, diretto da Giuliano Bressan. L’invitato?
Era proprio lui; un po' imbarazzato, un po' sornione, allegro e sorridente, pronto a insegnare coma funziona l'artificiale classica.
E lì a spiegare, con dovizia di particolari, a mostrare una miriade di foto, a indossare tutto quello che serve per aprire una via … lì, in sala, all'attacco della via, appunto, pronto a partire per chiodare un nuovo tetto.
Berto non apre vie senza tetti, non ci pensa nemmeno, e tanto più attraente é una linea di salita quanti più tetti ha.
Normale, no?

Al Ristorante dalla Mena, mentre parla con me, tiene lontani gli amici, cha lo guardano con l'aria di chi vuol dire "ti conosciamo, stai attento a come ti comporti!"
E’ tutto un programma quest’uomo, che nell'ambiente ormai é diventato una vera e propria istituzione. E’ nato a Este e la sua famiglia é di Bassano. E’ schivo, uno zingaro.
Gli piace essere così, e così racconta sé stesso, il proprio credo, i ricordi, i compagni di cordata.
La montagna per Berto significa prima di tutto amicizia.
Con gli amici l'ha vissuta e con gli amici ama riviverla.
Crede in Madre Natura e a lei si rivolge con il proprio canto.
"Non credo in nessun dio - mi spiega - e in nessuna religione.
Fin da piccolo canto, nel bene e nel male. Nei momenti difficili della mia vita, e anche in quelli di grande felicità, con il mio canto mi rivolgo a Madre Natura, non a un Dio, di nessun tipo, e nemmeno agli spiriti, com'é stato detto da qualcuno, se pur bonariamente.

Perché non credo? Penso di aver ereditato questo mio modo di sentire in gran parte da mia madre.

Ho già scritto di mia madre e di questo suo diverso modo di concepire la religiosità. Quand’ero ragazzo mi diceva:

"Figliolo, se incontri una puttana rispettala, é una donna che soffre, ha grossi problemi. Se incroci un prete evitalo e ricordati che le religioni portano le guerre. Guai a quella persona che non lascia crescere l’altra persona."
Allora non capivo E la tempestavo di domande. Tra le tante ricordo una risposta:
"Da ragazza andavo in chiesa, a quei tempi ci obbligavano, e mi domandavo: perché le donne entrano da un lato e gli uomini dall’altro? Perché i signori, i ricchi hanno i posti riservati con l`inginocchiatoio imbottito e noi contadini, povera gente, abbiamo l'inginocchiatoio di legno duro? Perché solo le ricche signore entrano in chiesa col cappello e noi contadine povere solo col velo? Perché predicano che siamo tutti uguali davanti a dio? La chiesa non é la casa di dio? Un giorno, avevo 15 anni, entrai in chiesa col cappello. All'inizio della messa il prete mi vede, si avvicina, prende a due mani una sedia, la mette tra me e lui, e mi spinge fuori della chiesa. Penso ancora oggi al perché di quella sedia, forse nella sua mente malata il solo sfiorarmi era peccato. Mah! Dicevano che ero tanto bella… Non mi detti per vinta, andai a casa di un’amica che abitava vicino, mi feci prestare un velo, lo misi sopra il cappello, rientrai in chiesa. Il prete non disse nulla. Tornata a casa mio padre mi riempì di botte."
Mia madre è stata una grande donna e una grande Madre.
Vedi -
precisa Berto - mi chiedi qual'é la mia età. Si cresce e si cambia, sempre in peggio.
Si ammalano le persone più care e noi cambiamo. Gli appuntamenti della vita lasciano il proprio segno e ci rendono tristi. Ma non ci sono poi grossi limiti di età a quello che si vuole realizzare, se ci si allena con passione. O quasi!
".
Sorride, lui che nel 2007, a 59 anni, ha salito le via Hasse-Brandler sulle Tre Cime di Lavaredo insieme a Francesco Scandolin, che tre anni fa ne aveva 57.

Berto associa la morte, l'amicizia e il canto; mi narra un episodio ricordato in altre occasioni, durante le serate trascorse a parlare degli anni vissuti attaccato alla roccia, tra un tetto e l'altro.
"Ero in Valle - narra - ed era morto da poco il caro amico Claudio Carpella, colpito da una pietra in testa all’attacco della parete nord del Gran Zebrù. Ero solo e tutto intorno a me era bello; ero circondato dai colori del verde, dal canto degli uccelli, dal vento, quello che da Cima Grappa scende e se ne va in pianura. Cantavo canzoni di montagna con parole mie, inventate, parole dettate dal vento.

                      Senti Vento, ti voglio parlare,
                            voglio cantare una canzone d’amore con le parole d'oro
                                  e tu Vento, portala sui monti, portala nelle valli
                                         falla sentire agli amici che non sono più tra noi.


Arriva in Valle una ragazza che non conosco e si ferma vicino al grande masso che sta ai piedi del diedro giallo. Un pensiero comune quasi si materializza. La ragazza e io pensiamo a Claudio. Continuo a cantare, lei resta lì per un po', e poi se ne va silenziosa. La ritrovo alle quattro del pomeriggio dell'estate 1990 al rifugio Treviso, mentre sto mangiando polenta, formaggio con le gocce e del buon rosso. Entra con un amico e, dopo aver chiacchierato un po', mi confessa di essere lei la ragazza che ascoltava il mio canto.
Claudio si allenava sul muro di casa sua e fu lui a farle conoscere la palestra di roccia della Valle. Dopo la sua morte la ragazza sentiva forte il desiderio di ritornare in quel luogo, ma non ci riusciva. Quando arrivava nelle vicinanze qualcosa la bloccava e ritornava indietro.
Al Treviso lei mi confessa che quel giorno, mentre io cantavo, seduto in cima alla parete della Sette col buco, lei sentì il mio canto, e il mio canto la accompagnò nella Valle
".
Berto si commuove pensando a Claudio e alla ragazza.
I compagni di cordata per lui sono stati e sono ancora, prima di tutto, amici.
E quando gli amici ricordano il suo canto Berto si emoziona e gli vengono le lacrime agli occhi.
"Loro tiravano la libera quando si decideva di aprire una nuova via - mi spiega - e io pensavo ai tetti. E sono Luca Zulian, Vincenzo Muzzi, soprannominato l'Orbo [te sì orbo, te salti i ciòdi, gli dicevo sulla Castiglioni alla Torre Venezia nel 1974], Gianmarco Rizzon, Paolino Visentin, Renato Piovesan, Mario Feltrin, Lorenzo Massarotto, Roberto Campana, detto il Cismonero, Domenico Rossetto, Ivano Cadorin, Paolo Benvenuti. Senza questi e molti altri compagni non avrei fatto quello che ho fatto. E’ bellissimo ritrovarsi ora, dopo 20 anni, ancora uniti da una passione comune.
E’ bello ripetere le vie insieme
".
Perché Marampon apre le vie cercando i tetti?
Perché ama l’artificiale?
La sua storia di arrampicatore ha inizio nel 1972, quando mette piede per la prima volta in Valle Santa Felicita. L’anno dopo frequenta il corso roccia alla scuola di alpinismo Ettore Castiglioni di Treviso, la sua città preferita.
Al CAI di Treviso nascono le prime amicizie. I ragazzi si frequentano non solo per arrampicare, ma vanno a giocare al pallone e la sera si divertono insieme. Tre o quattro giorni alla settimana Berto si allena in Valle.
Passa il sabato e la domenica in montagna. Dedica un giorno al riposo se ne va dove non avremmo mai pensato, a Iesolo!
Berto era allora sergente dell’aeronautica e viveva in aeroporto, se pur molti si siano sempre chiesti come facesse a sopravvivere in un ambiente militare con il carattere indipendente che si ritrovava. Lui stesso ammette di essersi preso dei bei castighi.
Passata l'estate sulla roccia, in ottobre il suo comandante decide di farlo lavorare anche di domenica.
"Dall’hangar del 2° stormo di Treviso - ricorda Berto - vedevo nubi nere quel giorno sulle Pale di San Martino. Era il 9 ottobre del 1973. Sullo Spigolo del Velo in quel momento c'erano quattro miei cari compagni e amici. A due tiri dalla fine li sorprese una bufera di neve.
La temperatura scese a -15 gradi, morirono in tre: Paolo De Tuoni, Roberta Dalle Feste e Sergio Lovadina.
Io arrampicavo da solo un anno e l'impatto fu duro. Cominciai ad avere un chiodo fisso. Perché si muore cosi, senza una ragione apparente?
Di colpo mettiamo fine alla nostra vita. La risposta fu: arrampicare ancora e dedicare una via alpinistica a ciascuno degli amici morti in parete. Apro in solitaria, in libera, nel settembre del 1976, sulla Gusèla di Cismon, una via di 220 metri, di V e VI, e la dedico a Paolo De Tuoni. Mi rendo conto che pianto troppi chiodi. 470 chiodi sono un’esagerazione. Altri, più bravi di me, mi dico, si muoverebbero su questa parete verticale con più facilità, chiodando e azzerando meno. E l’amico Massarotto in quell'occasione battezza i miei chiodi '
chiodi a impression!' Da allora li abbiamo sempre chiamati così.

Decido di aprire altre vie, ma non più in libera. Non voglio togliere a chi è più bravo di me la possibilità di seguire una linea verticale in modo pulito.
E’ finita la mia stagione della libera, durata dal 1973 al 1976. Non uso più gli scarponi, ma le scarpe da tennis Superga.
Mi metto a scrutare le pareti alla ricerca dei letti. A quei tempi era quasi impensabile. I tetti si evitavano.


Sono nate cosi la Roberta Dalle Feste al Covolo di Butisone, una via di 180 metri, di V e A2, aperta nel 1978 con Paolo Visentin e Gianmarco Rizzon, e la Sergio Lovadina, di 200 metri, VI, A3, aperta nel 1980 con Vincenzo Muzzi, sempre al Covolo di Butistone. Sono gli anni in cui le vie al di là della verticale di Cesare Maestri, Bepi de Francesch, René Desmaison o Pierre Mazeaud, solo per ricordare alcuni grandi, sono entrate nella storia dell'alpinismo in Dolomiti; in Valsugana si cimentano nell'apertura di vie in artificiale il bassanese Carlo Zonta, la guida alpina Renzo Timillero, per anni gestore del rifugio in Val Canali, Lorenzo Massarotto e Leopoldo Roman.
Tra i più giovani si distinguono Alberto Campanile, Ezio Bassetto, Manrico Dell'Agnola, Andrea Spavento e ben presto si fa notare un nuovo alpinista, che prova per i tetti una grande passione: Umberto Marampon.
C'é chi sostiene che la vera arrampicata sia la libera, percorsa, nelle prestazioni migliori, a vista e senza chiodi. Oggi la fa da sovrano il free-climbing. I climber più forti hanno spesso vinto in libera strapiombi e tetti prima superabili solo con l'uso delle staffe.
Ma lo spirito dell’artificialista é diverso e assai lontano dal concetto di competizione con se stesso e con gli altri cosi com'e vissuta in media dall’arrampicatore sportivo.
A Berto e agli artificialisti come lui piacciono i tetti. E’ bello restarsene li, appesi nel vuoto, muoversi strisciando sotto la parete con centinaia di metri d'aria al di sotto, precisi nei movimenti, equilibrati nella distribuzione del peso, attenti a non caricare i chiodi distrattamente per non trasformare una traversata in un pericoloso volo. Liberi.
ll racconto di Berto continua, tra sorrisi e sguardi malinconici.
Nei suoi occhi c'e la luce di chi ha vissuto momenti intensi, ora dolorosi e difficili, ora pieni di gioia e serenità, lì attaccato alla roccia, o nelle tende, immerso nel sonno di un bivacco, sveglio alla luce dell’alba, seduto davanti a un bicchiere con gli amici di una vita. La montagna ruba a Berto altri compagni. E Berto sempre li ricorda dedicando loro vie in artificiale.

Gli anni passano; nuovi successi e nuove sconfitte.
"Ci sono altre linee di salita - mi spiega - aperte per il solo piacere di aprirle, non dedicate a nessuno, se non a me stesso. Tutte le vie mi hanno dato un’enorme soddisfazione. Non ricordo la via più bella perché non voglio offendere nessuna via".

Della quarantina di vie attribuitegli, Berto ne nomina velocemente alcune.

La direttissima sulla parete Sud della Torre Venezia, nota come via della Libertà e aperta insieme a Vincenzo Muzzi, è un vero gioiello: supera tutti i tetti della parete, tra i quali è famoso quello a falce, di 5 metri.

C’è chi ancora ricorda le grida di Berto che cantava a squarciagola, felice, mentre la apriva nell'ormai lontano 1980.
Nomina la via Stefano Campeol, sulla Cima di Ball, nelle Pale di San Martino, aperta nel 1982 con Mario Feltrin, e la via con il tetto di 9 metri sulla parete sud della Pala delle Masenade, in Moiazza, salita la prima volta con Luca Zulian nel 1983.
Due anni dopo sempre con Luca, percorre una via sul Piccolo Dain, superando un tetto molto evidente a destra della Loss, e la dedica all’alpinista trevigiano Bepi Mazzotti.
Dello stesso anno é la via Cismon '85, sulla parete sud di Cima Campiglio nelle Dolomiti di Brenta: un tetto che strapiomba per 9 metri, ben visibile dal rifugio Brentei, salito in solitaria.
"Mi vergognavo un po' - dice Berto - nell'aprire quella via proprio lì, perché salivo in uno dei regni della libera, e per giunta davanti al rifugio di Bruno Detassis. E proprio quella volta mi si bloccò una corda e fui costretto a passare per il rifugio. Detassis mi prestò la corda di suo figlio; il gesto mi sorprese. Solo più tardi scoprii che raccontava: ‘Non ho mai visto scalare in quel modo; ha chiodato, salito, sceso, risalito quei tetti sempre cantando, come se non fosse faticoso.'
In cuor mio ancora lo ringrazio e non mi vergogno più
."
"Il primo gennaio del 1987 - racconta Berto - sto chiodando sulla parete est della Rupe del Castello un tetto sporgente 8 metri e 80 centimetri. Mi sporgo e vedo sotto di me un ragazzino. Sento un lungo sibilo e poi un gran botto. Che razza di figlio di…- sorride Berto - l’ho perdonato perché a modo suo mi ha augurato buon anno."
E ancora richiama alla mia attenzione alla rinfusa lo spigolo sud della rocca dell'Antelao, la via Mani Pulite nel gruppo del Lagazuoi, la via dedicata a Sandro Pertini, direttissima sulla Ovest della Cima Grande di Lavaredo, aperta insieme a Renato Piovesan, la via dell'Ospitalità a Pedra Longa in Sardegna del 1981, la Bepi Gasparotto sul monte Fop in Marmolada del 1994, la via Sergio Lovadina sempre in Sardegna, la via del Ricordo, che supera undici tetti, sulla Croda Spiza in Moiazza, la Paolo e Fausto sulla parete di Ori, poco a monte di Primolano in Valsugana, dedicate ai due ragazzi bassanesi Paolo Pozzi e Fausto Marchesini, di 19 anni, caduti mentre scalavano la via Castiglioni alla parete Nord del Sasso delle Undici, nelle Prealpi Feltrine; quest’ultima, aperta in solitaria, lo ha visto passare il capodanno in cengia da solo nel 1989. E come non ricordare il grande tetto di 49 metri del Covolon, in val Gadena!
Non é un semplice elenco di vie questo di Berto.
Le passa in rassegna nella memoria ad una ad una, ed é come se le avesse salite ieri.
E precisa; "Ho aperto prima la De Tuoni, in Cismon, poi la Lovadina, in Sardegna, ultima la Roberta Dalle Feste, sempre in Cismon. Mi dispiaceva che Sergio fosse li, da solo, lontano, in Sardegna. E allora gli ho dedicato una via anche qui vicino."
Berto si fa notare per la rigorosa ricerca dei tetti anche in valle del Sarca.
"Avevo l’impressione - e lo dice quasi come una supposizione fondata - che la Rupe Secca mi guardasse imbronciata, perché non avevo ancora aperto nulla li. Sulla Rupe del Colodri nel 1986 avevo già aperto una via e l'avevo chiamata DDT, visto che saliva parallela alla via Zanzara di Manolo. Cosi nacque Cismon '93, e la Rupe Secca fu contenta. E poi vennero altri itinerari in Val del Sarca."

Berto non é solo passato.
La sua attività oggi non si limita alla rievocazione delle imprese di un tempo.
Nel 2004 apre la via Gigi Lunardon sulla parete Est dal Pramper, l'ultima aperta in Dolomiti.
Del 2007 é la via Antonio Silvestri, dedicata all’alpinista caduto dieci anni prima mentre scendeva dalla via delle Guide in Brenta.
E’ preparato, é forte, si allena tutta la settimana come quando era ragazzo. Lo spirito non è cambiato, anche se a suo avviso “con gli anni si peggiora a si perde la memoria”.
Non si considera un alpinista. Si definisce un muratore della montagna.
"Pianto chiodi e non tiro la libera come i miei amici più bravi.

Me ne sto lì in parete per ore: ci vogliono fino a 35 minuti per piantare un chiodo con il perforatore." Marampon lavora cosi.

Il tempo passa al Ristorante dalla Mena.
E’ tardi e ci stanno aspettando per cenare.
In chiusura un consiglio di un esperto e simpatico alpinista.
Berto vuole lasciare un messaggio a quanti, soprattutto giovani, arrampicano.
"Fate tutto in sicurezza! Quando apro una via penso che sia giusto e doveroso creare dei percorsi sicuri. Chi la ripete non deve farsi male. Meglio un chiodo in più che un chiodo in meno. La ripercorro a distanza di anni e la sistemo; in sostanza faccio un'opera di manutenzione, sostituendo i chiodi rovinati e aggiungendone di nuovi. In parete le sviste, la superficialità, le disattenzioni possono costare care.
E sono più numerose di quanto pensiate. Non vale la pena rischiare -
avverte - per essersi dimenticati di fare il nodo di sicurezza quando ci si cala."
Lui nelle discese in doppia usa il Prusik.
"Più volte - mi spiega - il Prusik mi ha salvato, anche se è ben vero che se sta scritto oggi devi crepare, qualsiasi cosa tu faccia non scappi, crepi e basta! L'ho scampata bella il lunedì di Pasqua del 1977, quando salivo da solo la via Gnoato-Bertan-Zonta, che si trova sopra Cismon, in Valsugana, 270 metri di V, VI e artificiale.
Una scarica di sassi improvvisa mi sfiora e mi trancia una corda.
Con l'altra inizio le doppie e quando arrivo alla fine della terz’ultima, la corda mi schizza via dalle mani, esce dal moschettone e mi trovo a testa in giù e gambe in su, e per di più con lo zaino in spalla, appeso al cordino Prusik; sotto di me c'é un salto di 40 metri. Non ho fatto il nodo alla fine della corda. Il Prusik si blocca ad appena 8 o 9 centimetri dall'uscita dalla corda. Sono riuscito a tirarmi su, ed e andata bene. E posso ricordare gli episodi del 1994 sulla Cima Grande di Lavaredo, o del 2000 in palestra di roccia, o ancora dell'agosto del 2003 sulle Dolomiti Zoldane; quel giorno, sotto lo strapiombo giallo, esce il chiodo, volo, lo sento fare per tre volte dinn dinn dinn … avevo due Prusik, non si sa mai!
"

Umberto Marampon è un uomo sensibile, che ama la montagna, gli amici, il canto.
E un uomo che sa piangere.
"Mia madre mi ha mandato a scuola di musica. Mio zio, il fratello di mio padre, suonava il violino alla Scala a Milano: tu non ci crederai, ma io l'ho saputo solo pochi mesi fa da mia sorella. Una mia prozia cantava, ma nonostante gli sforzi di mia madre, io non capisco la musica. Canto, e basta."
Adora Venezia, i gondolieri che cantano, il traghetto che passa davanti a Torcello; di fronte alla bellezza della laguna confessa di aver pianto.
E’ lo stesso pianto che sorge spontaneo davanti a due quadri di Van Gogh al Palazzo dei Carraresi, a Treviso.
Berto sa apprezzare ciò che c‘é di bello nella vita.
E’ la bellezza che fa prigioniero il suo animo.

Caterina Serco
(Pubblicato su "Il Notiziario" del CAI di Padova)