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NOTIZIE.
17/06/2006 - Dal quotidiano "L'Adige" vi proponiamo: Everest, se la morte ti passa accanto.

A volte capita di leggere, anche sui quotidiani e non solo sulle riviste specializzate, notizie di alpinismo o interviste interessanti nelle quali non s’indulge al sensazionalismo o al prestazionismo, ma si trattano con equilibrio e misura argomenti anche delicati, oltre che di attualità. Ve ne proponiamo uno (segnalatoci da Maurizio Caleffi) che ci è piaciuto e contiene un’intervista all’alpinista trentino Renzo Benedetti; è tratto da L’Adige di mercoledì 14 giugno, nella pagina Alta Quota, firmata da Fabrizio Torchio.

EVEREST, SE LA MORTE TI PASSA ACCANTO. La corsa agli ottomila e l’etica rarefatta d’alta quota.
Una primavera di morte-spettacolo sull’Everest, nella neve i corpi congelati di chi si è accasciato, sfinito, a fianco delle corde fisse delle spedizioni commerciali. Alpinisti improvvisati, ma anche guide americane, europee, sherpa. Una decina le vittime del “tetto del mondo”, con l’ultima polemica che chiama in causa due italiani, mentre Sir Edmund Hillary – che primo calcò la cima nel 1953 – accusa l’alpinismo d’oggi d’un egoismo ai suoi tempi impensabile. Una guida statunitense, David Mazur, punta il dito contro due nostri connazionali (che però negano e danno un’altra versione dei fatti): alla sua richiesta d’aiuto per salvare un australiano, ormai semincosciente, avrebbero fatto finta di niente tirando diritto per la cima. E’ andata davvero così, come scrive il britannico Guardian? Non lo sappiamo, ma resta il fatto che dopo Aria sottile, il libro-denuncia di Jon Krakauer sul mondo delle spedizioni commerciali, il dibattito sull’etica in alta quota è più che mai attuale. Lo può confermare l’alpinista trentino Renzo Benedetti, appena rientrato dal Makalu, 8.481 metri  (il quinto della terra) che ha salito il 24 maggio scorso con Angelo Giovanetti. Renzo ha oramai cinque ottomila alle spalle, sei contando la sua ascensione all’Everest del 2003 quando – a soli 30 metri dalla vetta – un edema retinico gli ha tolto la vista. Praticamente cieco, solo e di notte, Benedetti è riuscito a scendere carponi da 8.800 a 8.500 metri. Caduto in un crepaccio ne è uscito con le proprie forze. Ma un alpinista diretto in vetta ha fatto finta di non vederlo mentre lui gli chiedeva aiuto. E quattro militari, dicendogli che era ormai spacciato, si sono presi la sua piccozza.
Benedetti, davvero lassù subentra l’indifferenza per la vita altrui?
“E’ una questione individuale e accade solo sull’Everest e sul Cho Oyu, l’ottomila più alto e quello più facile, dove salgono le spedizioni commerciali. Io ed Angelo Giovanetti sul Makalu abbiamo trovato solo alpinisti. Fra questi due ragazzi polacchi: lui si è fermato al campo 3 e lei ha bivaccato a 8.200 metri, senza tenda, solo con una bombola di ossigeno. Ci siamo preoccupati, le abbiamo chiesto se fosse impazzita, ma ci ha risposto che era una scelta sua. E l’ha fatto. Credevamo fosse morta, abbiamo anche mandato uno sherpa a cercarla. Poi abbiamo saputo che era arrivata sana e salva.
Ma c’è chi ignora le richieste di aiuto.
Nel 2003 all’Everest, a 30 metri dalla vetta sono stato colpito da edema retinico. Da un occhio non ci vedevo più da un pò, ma avevo pensato alla neve ghiacciata che mi turbinava contro la faccia. Era notte, c’era vento, vedevo solo grigio. Poi anche l’altro occhio ha ceduto ed ho perso completamente la vista. Ero sulla cresta affilatissima che dall’Hillary Step porta all’anticima. Mi sono inginocchiato e sono sceso così, con una mano sulla cresta e l’altra sulla neve, tastando le mie tracce. Ho incontrato un alpinista, un americano credo, so solo che parlava inglese. Gli ho detto che non ci vedevo più, gli ho chiesto di aiutarmi. Lui non ha risposto e mi ha evitato, ha fatto un giro largo e se n’è andato. Ho trovato anche quattro militari di una spedizione indo-nepalese che alla mia richiesta di aiuto mi hanno risposto “per te è finita qui”. Ho dato ad uno di loro la piccozza pregandolo di mettermela nello zaino e invece se l’è tenuta. Probabilmente pensava che non sarei sopravvissuto. A un certo punto sono scivolato e sono finito in un crepaccio. Per fortuna in salita lo avevo aggirato, avevo visto che si esauriva verso il bordo delle rocce, così sapevo di poterne uscire a destra. A quota 8.550 per fortuna ho incontrato uno sherpa che mi ha fatto respirare il suo ossigeno. La mia maschera era rotta. Sono rimasto con lui, poi è arrivato uno sherpa che era con Sergio Valentini e sono riuscito a scendere al Colle Sud. Da lì siamo scesi a 6.400 metri e alle 3 di notte ho aperto gli occhi scoprendo che ci vedevo di nuovo”.
Li ha rincontrati, gli alpinisti che l’avrebbero lasciata morire?

“So che l’americano ha detto di avermi visto ad un italiano che faceva parte della spedizione di Manuela Di Centa. Nessuno però è venuto a cercarmi. Al campo base, dove c’era la tenda dei militari nepalesi ho saputo che uno di loro era caduto in un crepaccio ed era morto, ma non so se è lo stesso che mi ha preso la piccozza”.
Ha ragione Hillary, dunque, ad accusare gli alpinisti di oggi di egoismo?
“Se a me capitasse una situazione del genere farei come lo sherpa che mi ha aiutato, la vita vale più di una cima. E’ stata una lezione a mie spese. Ma il mondo dell’alpinismo è sempre stato fatto di individualismi e di egoismi”.
Nonostante tutto, torna in Himalaya.
“Mi interessano le montagne che mi piacciono, dico di no a chi mi chiede di organizzargli una spedizione e che magari ha fatto solo qualche gita scialpinistica. Mi chiedo, che senso ha fare un ottomila quando non sei mai stato nemmeno sulla Marmolada?”.
Il prossimo obiettivo?
 
“Il Kangchenjonga, nella primavera dell’anno prossimo. E poi c’è sempre l’Everest: è un conto rimasto in sospeso”.

 

La nostra opinione sulle spedizioni commerciali himalayane è ben rappresentata dalla vignetta a fianco tratta dalla stessa pagina del giornale.