Una serata con Simone
Moro, il sopravvissuto
a cura di Gabriele Villa
Arriviamo un po’ in anticipo e nella sala ci sono solamente tre persone,
ma evidentemente tutto il mondo è paese ed anche a Piacenza le serate
programmate per le ore 21:00 iniziano comunque alle 21:30 perché alla
fine così ha deciso il pubblico.
Pian piano la sala si riempie e quando le poltroncine sono tutte occupate
la gente rimane in piedi, poi qualcuno porta seggiole e quasi tutti si
sistemano (alla fine saranno circa duecento i presenti) mentre intanto
arrivano un paio di persone ad armeggiare con computer e consolle.
Si tratta di un signore con la barba e un maglione vistoso e di un tipetto
“scattoso”, con gli occhialini e quasi mingherlino almeno visto così
da lontano o forse perché, intuito che è lui Simone Moro, uno se lo
sarebbe figurato più robusto, magari anche un po’ tozzo, perché
nell’immaginario collettivo a quello si abbina l’idea di forza e
resistenza di chi va per montagne.
Nell’invito della sezione del Club Alpino di Piacenza, organizzatrice
della serata di sabato 24 novembre, c’era allegato anche un curriculum
di vita, oltre che alpinistico, dell’ospite che già ne dava idea della
poliedricità, ecletticità e dimensione della figura umana.
Simone
Moro, classe 1967, alpinista, Guida Alpina, istruttore federale, dal 1992
al 1996, allenatore della nazionale italiana F.A.S.I. di arrampicata
sportiva.
Dottore in Scienze Motorie con la votazione di 110/110 e lode e autore del
libro “Cometa sull’Annapurna” edito da Corbaccio, che ha avuto 4
ristampe in un solo anno con 20.000 copie vendute. Parla 5 lingue
(inglese, tedesco, francese, spagnolo, russo) ed è uno dei circa 20/30
alpinisti al mondo che pratica questa attività a tempo pieno per 12 mesi
l’anno.
Ha tenuto e realizza ancora oggi conferenze e video proiezioni in tutto il
mondo raccontando delle proprie avventure affrontando aspetti tecnici,
nutrizionali, filosofici e sportivi della propria scelta di vita. Ha
partecipato alle più importanti trasmissioni televisive di costume,
intrattenimento e sport sui canali Rai e Mediaset.
Simone è sponsorizzato da una quindicina di aziende e per il quadriennio
1996-2000 è stato l’unico alpinista al mondo sponsorizzato da Nike.
Oggi Simone collabora anche con Sky Tv realizzando film e consulenze
durante le proprie avventure himalayane. Il sito internet dell’alpinista
www.simonemoro.com è lo strumento live dove si può conoscere tutto di
lui e contattarlo via mail.
Simone documenta e aggiorna quotidianamente le sue scalate tramite
sofisticate tecnologie satellitari che in tempo reale permettono di
seguire passo passo l’evolversi della salita; il traffico in rete ha
raggiunto anche le 250.000 visite durante i giorni di maggiore suspance
antecedenti e coincidenti con la salita in vetta.
Gli ultimi anni sono stati anche quelli del conseguimento di importanti
riconoscimenti internazionali come il Fairplay Pierre de Cubertin tropy a
Parigi dall’UNESCO e le medaglie d’oro al valor Civile dal Presidente
della Repubblica Ciampi e dalla Regione Lombardia.
Simone ha anche conseguito il prestigioso David Sowles Award
dall’American Alpine Club.
Tutti questi riconoscimenti di valore mondiale sono stati ricevuti per il
salvataggio estremo che Simone Moro ha operato da solo, senza ossigeno e a
oltre
8000 metri
sulla parete del Lhotse
8516 m
. Interrompendo la sua scalata e a rischio della sua stessa vita Simone
ha, infatti, deciso di cercare e trarre in salvo un alpinista inglese
infortunato di nome Tom Moores.
Dopo
essere stato annunciato dal presidente della sezione piacentina, lui si
presenta al pubblico in modo molto colloquiale, come uno che “non
se la tira” ma che vuole raccontare la sua esperienza alpinistica,
in particolare quella dei suoi ultimi dieci anni, con le vittorie e le
sconfitte perché, come sottolinea “non
c’è nessuno che vince sempre, in tutte le attività umane e quello del
vincente è un falso mito della nostra società”.
Si presenta sciolto Simone Moro, uno che vuole raccontare ma senza esibire
anche se di spedizioni ne ha fatte trentasei in sedici anni, e
l’attenzione del pubblico sembra presto calamitata, mentre lui si
sistema il microfono accingendosi a commentare le immagini con sottofondo
musicale del suo “
8000 metri
di vita”.
In me c’era grande curiosità, anche per andare oltre a quella
conoscenza abbastanza superficiale che viene “spalmata” a tappeto da
internet che dice tutto di tutti e di ogni argomento, ma non sempre
capisci qual è la qualità e l’affidabilità di quelle informazioni,
soprattutto nel mondo dell’alpinismo nel quale molti si “parlano
addosso” ed a certe notizie ed a chi le fornisce devi essere capace di
“fare la tara” (e non sempre è facile riuscirvi).
Beh, posso dire da subito che sono rimasto piacevolmente sorpreso e credo
che molti, se non tutti gli spettatori presenti, abbiano avuto la stesse
positive sensazioni mie a giudicare dal caloroso e prolungato applauso
tributatogli a fine serata. Credo
che raccontarla qui sarebbe opera vana, se non impossibile, ma qualcuna
delle sensazioni (e delle sorprese) provate cercherò di descriverla.
Intanto l’esordio
con la tragica spedizione dell'inverno 1997 alla parete sud dell’Annapurna costata la vita ai suoi
due compagni, Anatolij Boukreev e Dimitri Sobolev ed a lui un volo di
800 metri
da cui è sopravvissuto in maniera miracolosa e rocambolesca.
Colpisce il fatto che Simone Moro non calchi assolutamente la mano sui
particolari tragici di quella disavventura, né parli minimamente di come
sia riuscito a cavarsela da una situazione apparentemente disperata, ma
sottolinei piuttosto, e con evidente enfasi, il fatto di avere perso con
Anatolij un grande amico, mostrandone immagini e soffermandosi a
tratteggiarne la figura umana ed il loro dialogare durante i lunghi
bivacchi scambiando informazioni ed opinioni sui loro rispettivi mondi così
diversi, uno proveniente dall’est povero e difficile, l’altro
dall’occidente ricco e viziato.
Ed è un’altra storia di amicizia quella che colpisce, una di quelle che
non sono scritte sui libri che raccontano dell’alpinismo, quella fra lui
e Mario Curnis, altro alpinista bergamasco con cui Simone ha stretto un
buon rapporto di amicizia e fiducia nonostante sia di una generazione
precedente. Racconta di come Curnis abbia partecipato alla spedizione di
Guido Monzino, unico civile ammesso in una numerosa squadra di alpinisti
tutti appartenenti alle Forze Armate e ai Corpi Armati dello Stato,
organizzata nel 1973 e di come, oramai al Colle Sud dell’Everest,
raggiunto senza fare uso di bombole ad ossigeno, gli fosse stato negato il
permesso di salire alla cima perché diversamente era stato stabilito
l’ordine di arrivo alla vetta delle cordate della spedizione ed a lui
sarebbe potuto toccare solo successivamente.
Due cordate raggiunsero la vetta, poi sopraggiunse il cattivo tempo e
quell’occasione unica (e storica) sfumò irrimediabilmente e, molto
opportunamente sottolinea Simone Moro, sei anni prima che all’Everest
salisse Reinhold Messner, senza far uso di ossigeno, dimostrando ciò che
fino ad allora non si era creduto possibile e che Mario Curnis
probabilmente avrebbe potuto e saputo fare e senza alcun clamore.
Nel 2002, praticamente trent’anni dopo, Simone Moro invitò Mario Curnis
in una spedizione al Cho Oyu e all’Everest ed insieme a lui e ad un
altro ne raggiunse la cima.
Mostra le immagini di quella salita e fa rilevare come il Mario fosse
sempre stato davanti a fare la traccia, proprio lui con i suoi 65 che lo
fecero diventare l’uomo “più vecchio al mondo” ad avere raggiunto
la cima della più alta montagna della terra.
La giornata era stupenda, il panorama tutto intorno assolutamente
eccezionale ma Curnis sembrava taciturno, quasi non volesse gioire di
quella scalata e di quella vetta finalmente raggiunta ed a Simone che gli
chiedeva come mai nominandogli i nomi delle cime visibili a perdita
d’occhio, rispose amaramente “Simone,
io questo panorama avrei dovuto vederlo trent’anni fa, non adesso”.
E, sottolinea ancora Simone, in tanti anni non ha mai fatto una parola di
polemica…
Colpiscono successivamente le immagini dell’Antartide raggiunta per
salire il Monte Vinson in quel mondo di ghiaccio senza fine dominato dai
venti e dalle temperature rigidissime.
“Dopo quella spedizione avevo
voglia di colori per questo ho pensato ad una terra che ne è un tripudio
e sono andato in Africa per salire il Kilimangiaro”.
In effetti, le immagini che si vedono sono un caleidoscopio di colori in
una natura che decisamente è l’antitesi del mondo freddo e senza vita
dell’Antartide.
C’è poi un bel passaggio sui “colori della vita”, così li chiama
lui, mentre si vedono scorrere sullo schermo immagini familiari della sua
compagna e della sua figliola.
Ma ritorna presto al
mondo degli “ottomila” perché è lì che si svolge la sua attività
degli ultimi anni: Nanga Parbat, Broad Peak, K2 nel 2003, Baruntse Nord e
Annapurna nel 2004, Shisha Pangma in prima invernale assoluta nel
2005 in
compagnia di Piotr Morawski, traversata solitaria
sud-nord dell’Everest nel 2006, Broad Peak nel
2007 in
un tentativo di prima invernale non riuscito a causa del cattivo tempo.
E si dilunga a parlare dell’alpinismo invernale in Himalaya e di come
sia stato appannaggio assoluto degli alpinisti polacchi e lui sia stato il
primo capace di inserirsi in questo elenco i cui colori erano stati sempre
e soltanto quelli del bianco e rosso della bandiera polacca.
Verso questo alpinismo sembrano orientate le ambizioni del suo prossimo
futuro, fatto di progetti stimolanti, anche non facili da conseguire e
quindi ad alto rischio di non riuscita, ma per lui più importanti di
salite, magari più facili ma solo effettuate per il gusto di
“completare una collezione”, la qual cosa, ribadisce chiaramente, a
lui non interessa.
Non apre polemiche Simone Moro, ma si capisce bene che non ama
l’alpinismo (nè gli alpinisti) de “il risultato prima di tutto”.
Un alpinista, insomma, che ha saputo individuare una sua strada, un suo
percorso ben delineato e che pur vivendo di sponsorizzazioni non ha
l’obbligo del risultato e da questo non è condizionato nelle scelte
degli obiettivi e nemmeno dalla riuscita da garantire ad ogni costo.
Per questo ci ha tenuto a presentare anche le spedizioni in cui non è
arrivato in cima ma che fanno parte del suo percorso di esperienza, anche
di quella che ti fa capire quando non è il momento di osare oltre il
limite dal quale potrebbe non esserci ritorno, mantenendo fede a quella
parola che è l’ultima che pronuncia nella sua serata: umiltà.
Il lungo applauso
tributatogli dal pubblico ha chiaramente specificato il gradimento avuto
dalla serata, da quei “79 minuti
di proiezione – precisa Simone Moro - in
cui vi ho parlato di tante cose, non potendo approfondirle tutte, per cui
se ciò vi ha stimolato qualche domanda fatemela che io sono qui apposta
per rispondere”.
E le domande non si fanno attendere e nemmeno le risposte a dire il vero,
un po’ fuori dalle formalità come se si stesse parlando fra amici
davanti ad un calice di vino.
Qualcuno gli chiede di raccontare di quel volo di
800 metri
a cui è miracolosamente sopravvissuto e lui racconta di quella enorme
cornice di neve che sbarrava la via alla vetta e che sarebbe rimasta un
pericolo mortale anche in caso di ritiro per cui sperarono che sarebbe
rimasta lì ancora un po’ e cercò di superarla, ma quella crollò e li
travolse.
Così si ritrovò
800 metri
più sotto senza essersi fatto nulla nella caduta ma lesionato i tendini
di una mano tenendo la corda, mentre i due compagni erano stati travolti
dalla massa di ghiaccio e neve e, solo in piena parete, dovette decidere
se lasciarsi andare a quello che sembrava un destino di morte o reagire
con quel feroce istinto di vita “che
è in ognuno di noi e nemmeno sappiamo quante energie riesce a sprigionare”.
Riuscì ad arrivare ai piedi della parete ed a raggiungere le tende del
campo dove trovò il cuoco, inaspettatamente, perché lui prima di partire
per la scalata gli aveva detto di andare in modo che avessero trovato un
po’ di pista battuta al rientro.
“Lui però mi aveva disubbidito ed
era rimasto lì, così non trovai la tenda vuota ma lui che mi fu di
grande aiuto nelle condizioni in cui ero messo”.
Non ci sono accenni angoscianti nel racconto di Simone, ma parole che
fanno capire bene che non è stato semplice (come ad esempio scendere la
parete con il petto appoggiato al pendio non potendo usare le mani) ed
alla fine un sorriso e una battuta “Eh,
mi sa che lì mi sono proprio giocato il bonus”.
Ride il pubblico assieme a lui e subito arriva un’altra domanda per
sapere particolari del salvataggio dell’alpinista inglese Tom Moores a
quota ottomila sulla parete del Lhotse.
La risposta arriva subito ed inizia con un’altra battuta “per stemperare l’episodio e fare scaramanzia perché le medaglie al
Valor Civile, se sei vivo, te le danno di bronzo o al massimo d’argento,
invece a me l’hanno data d’oro”.
Sicchè racconta di come l’alpinista inglese fosse caduto e
scivolato in parete, quindi fuori dalla via battuta per la salita e lui si
fosse appena sistemato, stanco, nella tenda dopo essere arrivato dal campo
inferiore. Non ci furono altri a raccogliere la segnalazione di aiuto e
lui si preparò ed accinse ad andare da solo. “Molti
si sono meravigliati del mio gesto – aggiunge deciso – ma io dico che bisognerebbe meravigliarsi del contrario, di chi non
pensa di portare aiuto per salvare una vita umana. E’ chiaro che se fai
uno sforzo come ho fatto io a quella quota, dopo non ne hai più per
andare in cima ed ho sentito qualcuno bisbigliare un <we lost the
summit> (perdiamo la cima), ma io non ci ho pensato su e sono andato da
solo”.
E racconta di come sia sceso di circa duecento metri e poi abbia
attraversato fino ad individuare un punto scuro sul biancore della neve ed
infine raggiungere l’alpinista ed al suo sopraggiungere questo gli
avesse detto “I have a problem”;
“il fatto è che a quel punto il problema ce lo avevo anch’io, ma mica
potevo dirglielo, anzi dovevo cercare di fargli coraggio”.
Il rientro verso le
tende del campo avviene poi in maniera incredibile con l’inglese che,
avendo perso un rampone, sta appoggiato a Simone Moro mettendo il suo
scarpone senza rampone su quello dell’italiano e pian piano e senza pila
frontale dimenticata per la fretta, arrivano nei pressi delle tende. “Quando
sono stato a venti metri mi sono venuti incontro e mi hanno aiutato, poi
mi sono buttato nella tenda sfinito perché le avevo spese tutte. In
seguito sono nate le polemiche perché il mio salvataggio aveva fatto più
notizia della vetta raggiunta il giorno dopo dagli altri ed allora hanno
messo in dubbio anche quello che avevo fatto, dicendo che era stata
un’azione di gruppo, coordinata. Ma bastava chiedere a Tom Moores come
erano andate le cose e qualcuno evidentemente lo ha fatto e così sono
andato a prendere la medaglia d’oro al Valor Civile dal presidente
Ciampi”.
Appena si smorza l’applauso del pubblico Simone non rinuncia ad una
frecciata polemica: “Questo è il
mondo idilliaco dell’alpinismo, ma è normale che sia così perché non
è un mondo diverso da quello della società e di tutti i giorni con le
sue grandezze e le sue piccolezze”.
Ancora gli viene
chiesto perché arrampica sempre con gente dell’est, polacchi in
particolare, e se non ci sarebbe qualche italiano in grado di andare con
lui per quelle imprese alpinistiche.
La risposta era praticamente già stata detta nel corso della serata e
viene solo riconfermata: “Certo
che c’è gente valida, ma molti preferiscono fare la scelta che
garantisca risultato, cioè il conseguimento dell’obbiettivo, ovvero la
cima. E’ la nostra società che produce questa mentalità, per cui tanti
preferiscono le salite per le normali, magari quando c’è altra gente
sulla montagna e il raggiungimento della cima è molto agevolato;si fa un
pò di fila, ma si arriva e si collezionano i risultati. E poi per noi
l’alpinismo è anche svago, vacanza; per un polacco che guadagna 12
dollari al mese essere lì vuol dire grandi sacrifici per cui sono molto
motivati. Non sentirete mai un polacco dire <sono stanco> <quanto
manca> <che fatica> <mi manca la morosa> o robe simili;
loro hanno voglia di andare, hanno fame, sono dei lupi”.
Sa rendere efficacemente il concetto Simone Moro e dimostra anche di
che tempra è fatto, di quale sia l’approccio psicologico al suo
alpinismo.
E’
una voce femminile che arriva da bordo sala a rivolgere l’ultima domanda
su quale sia il prossimo obiettivo. “Rispondo
con una data che è quella di partenza della prossima spedizione: 30
dicembre – risponde deciso il bergamasco – Quest’anno
ho voluto passare il Natale con la famiglia, mi sembrava giusto, tanto non
cambia di molto il mio tentativo di prima scalata invernale del Broad
Peack che effettuerò con l'alpinista pakistano Shaheen Baig.
Con lui mi sono trovato bene, è un tipo allegro come me e questo serve
molto quando si sta fermi in
tenda perché c’è cattivo tempo, altrimenti non si resiste a lungo in
quegli ambienti. E poi – gli scappa detto – il
25 dicembre non c’era nemmeno il volo aereo”.
Con una risata allegra condivisa dal pubblico termina una serata
veramente interessante, una di quelle che, piacevolmente, lasciano il
segno in chi ha avuto la voglia e l’occasione di partecipare.
Gabriele
Villa
Piacenza,
sabato 24 novembre 2007
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