Sulle tracce dei pionieri
di Mauro Mazzetti
Capita spesso, almeno a chi è un po’ ammalato di montagna, di sfogliare
guide “a secco”, cioè senza avere idee precise e senza cercare salite
particolari; così, tanto per passare il tempo e per aumentare il
bagaglio di conoscenza di luoghi, situazioni, scenari, ambienti ed
atmosfere.
Da parecchi anni, nei libri e nelle relazioni mi sono indirizzato anche
alla ricerca di un briciolo di storia dell’alpinismo.
Cerco così di avvicinarmi a monti inusuali, poco conosciuti o poco
frequentati.
Non sorprenda che tra queste vette abbia inserito anche il Monte Bianco.
Certamente, non lo si può definire poco conosciuto o poco frequentato.
Eppure, a cercare bene fra le pieghe e le pagine di libri patinati e di
guide polverose, qualche scampolo di mistero e di novità lo si trova
anche lì sopra.
O meglio, lì sotto e lì in mezzo.
 
Escluse le vie normali francesi, vere autostrade sempre percorse e
soggette a volte a gravi incidenti, esclusa la via normale italiana dal
rifugio Gonella, ormai “storicamente” in fase di ristrutturazione, agli
alpinisti della domenica (e non di tutte le domeniche) rimangono scarne
possibilità di salire alla vetta senza rischiare di fare la coda su una
cresta iperfrequentata o di dover staccare un biglietto per la
prenotazione in rifugio.
A guardare bene, però, una possibilità esiste ed è concreta.
Lo sperone della Tournette risponde appieno ai requisiti richiesti:
poche persone, difficoltà abbordabili, assenza di mezzi di risalita.
Solo sano ed onesto sudore della fronte; 1750 metri di dislivello dal
fondovalle al bivacco Quintino Sella, più 1420 metri di salita dal
bivacco alla vetta.
Totale, metro più metro meno, 3200 metri guadagnati alla forza di
gravità senza aiuto esterno.
Già la salita al bivacco è un’escursione a se stante, con difficoltà
alpinistiche che variano al variare delle condizioni generali e del
tempo passato.
Kennedy, Fischer e Carrel, che lo salirono per la prima
volta il 1° luglio 1872, lo trovarono quasi certamente in condizioni
migliori; il ghiacciaio del Miage era certamente più “grasso”, e
ricopriva le infinite morene e pietraie che abbiamo invece incontrato
noi, a fine agosto 2008.
I tre risalirono velocemente il ghiacciaio che sostiene la costola
rocciosa sulla cui sommità è posato il bivacco.
Noi abbiamo dovuto farci strada in un dedalo infinito di crepacci e
ghiaccio fossile prossimo alla verticale, stando ben attenti ad evitare
le temute e paventate scariche di pietre, che invece abbiamo evitato.
[Una pietra, una sola è venuta giù dalla seraccata: e la mia coscia ne
sa qualcosa…].
Si sale lentamente, in quest’angolo appartato e silenzioso.
Siamo letteralmente incastrati nella montagna, lontani ormai mille anni
luce dalla civiltà, che pure rimane visibile se appena ci guardiamo
dietro le spalle.
E siamo a malapena arrivati al bivacco.
Il bivacco: basterebbe solo fermarsi qui per cogliere un gusto diverso
dell’andare in montagna.
Questa capanna di pietra, con il pavimento sospeso sul nulla del vuoto
più profondo e più severo, ci accoglie come un piccolo sunto di storia
dell’alpinismo.
Troviamo le tracce di quelli che hanno vissuto e creato
i “giorni grandi”, come diceva Bonatti.
Notizie e considerazioni scritte
sugli scuri che difendono le piccole finestre; appunti tecnici sui muri
di legno; poche note stringate sul libro del rifugio.
Qualche guida con radi clienti, sparuti gruppi di appassionati, parecchi
genovesi.
Dall’anno scorso, solo una decina di cordate sono giunte al bivacco
Quintino Sella.
Di alpinisti dilettanti pochi, tutti ammalati e ricercatori di
solitudine e di silenzio.
Anche noi tre [Andreina, Alessandro ed io] scriviamo sul quaderno del
rifugio i nostri nomi e le Sezioni CAI di appartenenza. Scriviamo i
nostri nomi con circospezione e con timore, quasi con riluttanza,
ignorati ed ignoranti ospiti indesiderati, giunti casualmente ed
inopinatamente ad un convegno di saggi e di potenti.
Facciamo fondere la neve nel fornelletto, per ricavare preziosi liquidi
da ingurgitare avidamente; poco importa che l’acqua non sia filtrata e
rilasci corpi estranei all’H2O.
La mia professoressa di chimica si
sbizzarrirebbe, nell’analizzare quest’acqua così particolare; ma gli
esami di laboratorio li rimandiamo ad un’altra volta.
Adesso bisogna riposare, per recuperare energie fisiche e mentali,
entrambe indispensabili per garantire una salita sicura e remunerativa.
Consumiamo velocemente la merenda/cena/colazione in un tardo pomeriggio
dorato.
Dopo aver steso ad asciugare le nostre magliette ipertecniche, in
acrilico al 600%, ci fermiamo ancora una volta ad inquadrare lo scenario
che ci circonda.
Il versante più nascosto e più selvaggio del Monte
Bianco si mostra in tutta la sua apparentemente dimessa potenza. Davanti
a noi la cresta del Brouillard, con i pilastri del Freney.
Nomi che hanno fatto la storia e la tragedia del Bianco: Pilastro Rosso,
Pilastro Nascosto, Cresta dell’Innominata, Couloir Soudain (disceso in
sci N.d.A.), Pilone Centrale. Chi sale di là si può definire alpinista?
E chi sale di qua, ossia per lo sperone della Tournette, si può definire
altrettanto?
Non mi interessa molto, adesso. Ci penserò poi, magari in un altro
momento.
Ripartiamo i liquidi da bere. Per la sera e la mattina (mattina
all’1.30?) da una parte; per la giornata di domani dall’altra. Ancora
una volta dividiamo i pesi, allo scopo di distribuire equamente i
carichi.
Arrampicare con lo zaino non è mai piacevole o confortevole; con lo
zaino carico lo è ancor meno.
Un’ultima occhiata agli scuri che difendono una finestra del bivacco.
C’è scritto: “Luglio 1937. Siamo bloccati qui da tre giorni per una
tormenta”.
Ce ne basta e ce ne avanza.
Buona notte.
 
La sveglia implacabile squilla all’1.30, come scritto sopra.
Pochi attimi per passare da uno stato di torpore (sto dormendo?) ad un
stato di stupore (sono sveglio?).
Completato l’usuale rito della ripiegatura delle coperte, bastano pochi
minuti per prepararci.
In una notte vivaddio luminosa per la luna piena, caliamo lungo il
pendio di sfasciumi, disarrampicando quel minimo necessario a scaldarci
i muscoli ed a perdere velocemente quota.
Calziamo i ramponi e risaliamo veloci e slegati il ripido pendio,
intersecato da due crepaccette terminali, che conduce alla sella nevosa
da dove bisogna ancora scendere, questa volta accuratamente legati.
Traversiamo il ghiacciaio, solcato da crepacci longitudinali, fino a
raggiungere l’attacco della via.
Di qui o di là? A destra o a sinistra? La relazione non aiuta più di
tanto; verso l’alto si vede poco, con fughe prospettiche che poco ci
aiutano a scegliere quale costola rocciosa seguire e scalare.
Basta pensare a come sarebbero saliti gli “antichi”, e troviamo quasi
sempre alla prima la risposta giusta.
Solo dopo qualche ora, con la luce radente dell’alba, abbiamo la
conferma che siamo sulla strada corretta.
I segni dei ramponi sulla roccia ci rassicurano: forse non siamo sulla
via maestra, ma almeno si continua a salire.
I pendii si alternano ai tratti rocciosi, che affrontiamo rigorosamente
a tiri con i ramponi ai piedi.
Per la verità, di ramponi ne abbiamo solo cinque, perché il sesto è
stato perso dalla mia amica Andreina a circa un terzo della via.
Sarà un
altro motivo, unitamente alla necessità di battere traccia su neve
abbastanza profonda e pesante, nonché di superare passaggi abbastanza
ostici, per cui saremo molto lenti.
A circa metà via, dopo l’ennesimo costolone roccioso, sembra di essere
arrivati.
Dobbiamo infatti superare una strapiombante cornice nevosa, che
sembrerebbe condurre sulla via normale.
Dopo qualche difficoltà, causata dall’inconsistenza della neve,
demoliamo la cornice a colpi di piccozza e riusciamo ad aver ragione
anche di questo ostacolo.
Ci giriamo indietro, inquadrando la trincea
che abbiamo scavato per superare la cornice; poi guardiamo in su,
ansiosi di riconoscere la traccia bonaria e rassicurante nella neve.
Ci accoglie solo la vista di altri pendii e di altri speroni rocciosi,
che chiudono senza remissione il nostro orizzonte verticale.
 
Riprendiamo a scalare, riponendo la speranza di chiudere in breve la
partita con questo pezzo di storia alpinistica.
Dovrà passare ancora parecchio tempo, prima di raggiungere veramente la
traccia della normale.
E’ già pomeriggio, ma c’è ancora traffico di piccozze e ramponi.
Vediamo
in lontananza gruppetti che stanno scendendo dalla vetta, proprio mentre
decidiamo, pur con grande rammarico, di non puntare alla cima.
Il vento è poderoso ed impetuoso, e ci costringe a sederci sulla cresta
per non essere sbalzati di sotto.
Mentre stiamo completando le classiche operazioni di ogni fine salita,
incontriamo una guida che sta scendendo da solo. Ci chiede in francese
se siamo saliti dal rifugio Gouter; la domanda ci consente così di
gustare un briciolo di gloria a buon mercato, quando gettiamo lì con
noncuranza le parole Eperon de la Tournette.
Scendiamo cauti, a seconda della direzione spinti o trattenuti dal
vento, perdendo quota fino alla capanna Vallot.
Su questo bivacco, posto ben oltre i 4200 metri, varrebbe la pena di
fare una digressione.
Basti però dire che è in condizioni pietose, che rispecchiano una
diffusa maleducazione.
Non è possibile neanche sdraiarsi, per la quantità di spazzatura che
copre oltre metà della superficie utile; sembra più un piccolo pezzo di
un girone dantesco, popolato da personaggi stralunati che vivono in
mezzo a residui di cibo, scatolette aperte, stracci di ogni genere,
dentro i quali è quasi impossibile riconoscere pezzi di indumenti o di
sacchi a pelo, sacchetti di plastica pieni di qualsiasi rifiuto
appartenente ai regni minerale, vegetale ed animale.
Non ce la sentiamo di fermarci qui, anche se il pomeriggio è ormai molto
avanti.
Decidiamo di scendere 500 metri più in basso, fino al rifugio Gouter.
Riprendiamo così la discesa, questa volta senza legarci, ma allungando
il passo sulla bonaria traccia.
Quando il sole sta per calare, incrociamo con lo sguardo la cresta di
Bionassay, arrossata dal tramonto e quasi stilizzata contro il cielo blu
scuro.
Da lì a poco raggiungiamo il rifugio Gouter.
La mattina dopo, lasciateci alle spalle le orde di aspiranti alla vetta
del Bianco, caliamo con circospezione lungo i 500 metri di dislivello
che ci faranno uscire dalle difficoltà.
Con i ramponi ai piedi, utilizziamo le corde fisse ed i cavi di acciaio
che ci depositano, non dopo un ultimo brivido gratuito
nell’attraversamento del Couloir del Gouter, su una piana pietrosa nei
pressi del rifugio Tete Rousse.
Ormai si deve solo scivolare, scivolare, scivolare, su un sentiero
infinito, faticoso e molesto verso la stazione della funivia,
destinazione Les Houches, frazione di Chamonix.
Ormai siamo rientrati nella civiltà, nel turismo griffato d’oltralpe.
Non ci resta che bucare da sotto il Monte Bianco con il traforo, dopo
averlo salito, per tornare in Italia e nel nostrano turismo griffato.
Mi pare che pioniere derivi dal francese pedone.
Mi sembra un buon
etimo, magari un po’ forzato, ma denso di significati.
Anche noi, pedoni alpinisti, abbiamo lasciato la nostra traccia sul
monte.
Una traccia discreta e rispettosa.
Mauro Mazzetti
Genova, ottobre 2008
Scheda tecnica
Prima salita: T.S. Kennedy con J.A. Carrel e J. Fischer 1° luglio 1872.
Itinerario elegante ed interessante per la sua bellezza ed isolamento.
Arrampicata gradevole, un po' esposto alla caduta sassi all'inizio dello
sperone.
Da notare che questo itinerario presenta delle indicazioni di difficoltà
molto discordanti tra le varie fonti.
CAI-TCI Monte Bianco I G. Buscaini: D/D-
Vie del Cielo M. Colonel: AD/IV
Guida Vallot Monte Bianco I: PD
Al bivacco Quintino Sella, oltre che per la via "antica" sullo sperone,
si può giungere anche dal rifugio Gonella, attraverso il ghiacciaio del
Dome e il couloir cosiddetto a Y ben visibile dal Gonella per il ramo di
destra.
Per il bivacco dalla sbarra della Val Veny calcolare 6.30 - 7.30 ore.
Per l'ascensione vera e propria dalle 7 alle 10 ore dal bivacco alla
vetta.
Descrizione:
1° giorno
Dal lago Combal risalire il ghiacciaio del Miage fino allo sperone che
scende sulla destra orografica del ghiacciaio del Monte Bianco. Trovare il
passaggio migliore, generalmente vicino allo sperone, e risalirlo fino
alla conca sovrastante; portarsi sullo sperone roccioso dove per tracce
di sentiero, ometti e crestine si giunge nel luogo dove sorgeva la
vecchia capanna, continuare sulla sua verticale per canali, sfasciumi e
roccette, dirigendosi verso l'estrema punta dello sperone sotto il
pendio di ghiaccio da dove partono le vie sul versante occidentale del
Bianco.
2° giorno
Dal rifugio si cala verso NE fino ad uno scivolo ripido del piccolo
ghiacciaio che porta alla sella (quota 3660 metri) sulla spalla nevosa a sud
dei Rochers.
Si scende di poco sul ghiacciaio del Monte Bianco,
attraversandolo nella sua tranquilla conca superiore in direzione di un
pendio nevoso con seracco, ristretto fra la base dello sperone a
sinistra ed un isolotto roccioso a destra.
Si supera la crepaccia ed il
ripido ma breve pendio (caduta di pietre) e dal nevaio soprastante si
prendono a sinistra le rocce dello sperone (circa 3900 metri). Si segue la
lunga cresta dello sperone (sfasciumi, I, II, III, misto) fin dove
termina su una spalla nevosa a circa 4500 metri. Si continua su un tratto
nevoso molto bello.
La prima fascia rocciosa si supera per un canalino
con neve e dopo un altro tratto nevoso ancora per un canalino di roccia
(III). Dopo altri rilievi più facili si esce presso le rocce della
Tournette a 4677 metri.
Per la cresta delle Bosses (via normale) in 30
minuti si arriva in cima al Monte Bianco (4810 m).
Discesa per una delle vie normali francesi del Bianco.
Sconsigliata la
normale italiana (o delle Aiguilles Griges), perché transita nei pressi
del rifugio Gonella – attualmente in ristrutturazione - in una zona
soggetta a divieti per pericolo di caduta materiali.
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