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Ritorno al Gran Paradiso
(ovvero “La sindrome del reduce”)

 di Mauro Mazzetti

Visioni e frasi spezzate si affacciano di nuovo alla mia mente
L’inverno od il freddo le han portate o son cattivi sogni solamente.
Mattino verrà e mi porterà
le silouhettes consuete di parvenze...
E ancora non sai come potrai
trovare lungo i muri un’esperienza.
Sapere vorrai, ma ti troverai
dieci anni dopo al punto di partenza.
(Francesco Guccini)
  

Non é mai bello, né sicuramente elegante, presentare un racconto scrivendo “io ho fatto, io ho detto, io ho pensato”. Cesare, che era Cesare, usava sapientemente la terza persona singolare: “E Cesare varcò in armi il Rubicone” eccetera eccetera. Chi scrive ha (mi si passi l’ovvia metafora) la piccozza dalla parte del manico: quindi il lettore non può intervenire attivamente, ma solo subire il furore letterario dell’autore. 

Le suggestioni di un “quattromila” sono tra le più varie: c’é chi sale per provare il proprio fisico ad alta quota, chi per aggiungere un’altra vetta al curriculum, chi per il piacere di affrontare e superare la difficoltà tecnica, chi ancora per trovare una giustificazione che ha smarrito nel mondo di tutti i giorni. Fra tutti i quattromila saliti il Gran Paradiso é quello a cui sono affettivamente più legato. Il vincolo é forte e profondo, tanto é vero che fu la prima cima da me vanamente tentata prima ancora degli albori della mia attività alpinistica. Una piccozza affittata ed i ramponi raccogliticci, calzati su due scarponacci di cuoio flessibili e pesantissimi, il maglione di lana fatto a mano ed una giacca a vento modello “Zeno Colò” furono il misero equipaggiamento in mio possesso.
Passarono gli anni, e ritentai la vetta altre due volte: in entrambi i casi mi fermai alla Schiena d’asino, una volta con mio cugino, digiuno di esperienza in montagna, ed una volta con la mia allora fidanzata, più propensa all’abbronzatura che alla fatica.
A me invece la voglia di scalare rimase e si alimentò nel tempo con le speranze e con le gioie delle salite che riuscivo a portare a termine. Ma tant’é, il Granpa rimaneva sempre nei miei pensieri, non ancora raggiunto ma solo avvicinato con lo sguardo. 

La volta buona fu nel 1992: dopo alcuni giorni di acclimatamento in quota, salendo alcune cime del Rosa con un amico che non c’é più, mi decisi a tentare l’”assalto finale”. Un martedì caldissimo di fine luglio mi recai in Sezione, alla ricerca di un compagno con cui dividere la corda; ero però così determinato a salire, che sarei partito anche da solo. Incontrai Claudio, libero da tutti i suoi multiformi e svariati impegni: decidere in un attimo la partenza fu semplice, passare tre ore di macchina in piacevole conversazione fu un godimento, salire senza sforzo in una bellissima giornata solare fu una grande fortuna. Finalmente avevo raggiunto il Granpa, condividendo con una moltitudine di persone questa esperienza irripetibile.
Irripetibile veramente? L’anno successivo (1993) il sentiero per il rifugio Chabod ci vide salire lentamente verso la parete nordovest, sotto la quale bivaccammo in quattro: salimmo di conserva il primo tratto nevoso, finché Paola e Gabriele deviarono sulla via Cretier, una salita storica di misto (neve e roccia solidissima), mentre Sergio ed io proseguimmo diritti per la via Bertolone, variante Diemberger, salita interamente su ghiaccio. Nonostante la stagione avanzata (agosto) e mercé un indiavolato compagno di cordata liquidammo la via procedendo di conserva: niente tiri, niente soste e protezioni intermedie, niente chiodi, solo movimenti sicuri e precisi con piccozze e ramponi sul ghiaccio nero ed alveolato dello scivolo. 500 metri più sopra ci accolse una aerea e delicata crestina nevosa: di qua il versante Valsavarenche, verde smeraldino su cui spiccava il sentiero che portava al fondovalle, di là l’aspro e severo versante Valnontey, ostico ambiente con il fascino della solitudine. Dalla vetta tradizionale ci spostammo su quella “convenzionale” (dove c’é la statua della Madonna, per intenderci), e da lì ritornammo alla tendina ai piedi del ghiacciaio; scendemmo poi la ‘normale’ di gran carriera, raggiungendo in pochissimo tempo il fronte morenico della parete. Girandoci verso la cresta sommitale, vedemmo due figurine stagliarsi contro il cielo: i nostri amici avevano appena completato la salita e si accingevano anch’essi a rientrare. 

Sono passati dieci anni: da allora non sono più ritornato al Granpa, anche se l’anno scorso ho tentato con Maurizio l’altra salita della parete nord; uno scarpone imbizzarrito gli (e mi) impedì di attaccare la via ‘Cretier’, lasciando segni e cicatrici nel contempo sulla sua gamba e sul mio morale. Perciò feci buon viso a cattivo gioco (vedi alla favola di Esopo “La volpe e l’uva”...), e rinfoderai i propositi bellicosi. 

Come detto, sono passati ‘solo’ una decina di anni dalle mie salite sul Granpa, ma sembra che una nuova concezione dell’alpinismo abbia scalzato le antiche idee. C’é un universo parallelo,  alpinisticamente parlando, che si muove solidale con (ma distinto da) concetti prefissati e forme consolidate di attività. Da una parte l’estremo tecnicismo, lo spingere al limite – e spesso oltre – la ricerca di nuovi ed esasperati problemi su roccia e su ghiaccio; dall’altra parte un alpinismo ‘classico’ (ma cosa mai vorrà dire? forse che se non supero la difficoltà “D” sono ‘classico’, e se la supero sono ‘estremo’?), un alpinismo cioè tranquillo e sicuro, appagante ed ansiolitico, senza slanci epici e/o eroici. Mi viene in mente la rassicurante ripetitività degli itinerari: tutti gli anni le stesse salite, con gli stessi compagni, negli stessi periodi, con le stesse parole, con gli stessi gesti, perché comunque sul Penna ci si ‘deve’ salire, i “Genovesi” ‘vanno’ fatti e la capanna Margherita é un must. Ma forse é più ‘alpinista’ chi percorre sentieri, rispetto a chi effettua movimenti scimmieschi su massi a venti centimetri da terra. 

Tutto questo rimugino, salendo verso il rifugio Chabod in questa strana estate 2002, giunta  cronologicamente in orario, anche se la meteo non vuole sentirselo dire e non si decide a mettere giudizio. Perturbazioni e maltempo imperversano sulle nostre Alpi e sul centro Europa, provocando danni ingentissimi e disagi infiniti. In montagna le condizioni abituali e consolidate negli anni sono mutate, stravolgendo canoni e parametri istituzionali (la nord della Ciamarella a maggio, il canalone di Lorousa a giugno, le prime salite in alta quota a luglio).
E’ la vigilia di Ferragosto, e sono diretto ancora una volta verso il Gran Paradiso, in compagnia di Francesco e di Alberto. Il primo l’ho conosciuto solo mezz’ora fa, con il secondo ho una frequentazione che una volta sarebbe stata indicata come ‘amico di penna’, ma che nell’era di Internet viene piuttosto etichettata come ‘amico di tastiera’. Che volete, la posta elettronica sta soppiantando la sana vecchia stilografica, le buste da spedire e le rapide leccatine ai francobolli; anche in questo frangente bisogna fare di necessità virtù. Comunque sia, la compagnia é simpatica ed assai gradevole; lungo il sentiero e poi al rifugio parliamo e parliamo, toccando tanti temi ed approfondendo la reciproca conoscenza, scambiando impressioni da veneti a ligure, anzi, da vicentini a genovese.
Alberto ha una significativa esperienza alpinistica e sta per partecipare ad un progetto medico-scientifico in alta quota durante una spedizione in Tibet, Francesco ha salito tante vie sul Bianco ed in Dolomiti da riempire un quaderno scritto fitto fitto: entrambi non conoscono il Granpa, e la mia proposta di salire questo quattromila “basso” per la via Cretier li ha stimolati. Tutti e due sono positivamente curiosi e saldamente concreti, esempi paradigmatici di come noi ‘occidentali’ ci immaginiamo il nordest italiano.
La sera in rifugio passa quieta, il crepuscolo arrossa lo scivolo nord del Gran Paradiso e le pareti circostanti, accomunando queste montagne all’”enrosadira” delle Dolomiti. Sembra quasi che lo spirito e l’essenza di re Laurino siano migrati dentro il re Vittorio Emanuele, sovrapponendo mito e storia, realtà e fantasia.

Le luci delle frontali sciabolano nel buio della notte fonda, illuminando vanamente il filo della morena che ci conduce al ghiacciaio. Da lì la traccia suggerisce zig zag sempre più stretti e ripidi, fino alla parete che si drizza impercettibilmente ma con continuità. Saliamo lenti (almeno così mi sembra); oltrepassiamo la crepaccia terminale e cominciamo la salita vera e propria. Un deja vù: sbirciando di lato verso destra, mi sembra quasi di intravvedere le mie tracce di dieci anni fa, mentre ripercorro con gli occhi della mente quella salita. Poi mi concentro di nuovo sulle piccozze e sui ramponi, scrutando le rocce ed il cielo che schiarisce.
Chi ci vedesse dal rifugio potrebbe scambiarci, noi tre distanziati ma legati assieme, per uno strano e fantastico animale che si insinua astutamente nella parete, alla ricerca del percorso migliore. Pieghiamo verso la roccia, deviamo verso i residui fazzoletti di neve, saliamo diritti sul ghiaccio, combattiamo con il male ai polpacci della scomoda posizione dondolando asimmetricamente corpo e gambe. Chiodi da roccia, viti da ghiaccio e friends si adattano alla morfologia della parete,  collegandoci alla montagna con il filo rosso del rispetto nei suoi confronti; c’é persino il tempo di scattare qualche foto, non più soverchiati dalla mole del Gran Paradiso ma quasi avvolti dall’ambiente. Il pendio finale si abbatte man mano e ci consegna la cresta nevosa. La seguiamo, un piede davanti all’altro, sino alla vetta: Alberto lancia un grido, Francesco sorride ed io provo una sensazione che credevo dimenticata in fondo allo zaino. Mi muovo e mi com-muovo, mi sposto insieme ai miei amici fino all’inizio della discesa per la via normale. Un rapido scambio del materiale, una sosta più prolungata per guardarsi in giro ancora una volta, un sorso d’acqua, poi la discesa verso il rifugio Vittorio Emanuele e giù fino a Pont, in cerca di un passaggio in auto.

Charles Trenet avrebbe cantato: “Que reste-t-il du Gran Paradis?” Davanti ad un fresco bicchiere di prosecco sorseggiato in ottima compagnia, non cerco la risposta ma vivo questi momenti senza l’obbligo di razionalizzare a tutti i costi: non é ancora il tempo di azzerare i ricordi e di cancellare i sogni.  

Mauro Mazzetti

agosto 2002