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Ritorno al Gran Paradiso di
Mauro Mazzetti Visioni
e frasi spezzate si affacciano di nuovo alla mia mente Non
é mai bello, né sicuramente elegante, presentare un racconto scrivendo
“io ho fatto, io ho detto, io ho pensato”. Cesare, che era Cesare,
usava sapientemente la terza persona singolare: “E Cesare varcò in armi
il Rubicone” eccetera eccetera. Chi scrive ha (mi si passi l’ovvia
metafora) la piccozza dalla parte del manico: quindi il lettore non può
intervenire attivamente, ma solo subire il furore letterario
dell’autore. Le suggestioni di un
“quattromila” sono tra le più varie: c’é chi sale per provare il
proprio fisico ad alta quota, chi per aggiungere un’altra vetta al
curriculum, chi per il piacere di affrontare e superare la difficoltà
tecnica, chi ancora per trovare una giustificazione che ha smarrito nel
mondo di tutti i giorni. Fra tutti i quattromila saliti il Gran Paradiso
é quello a cui sono affettivamente più legato. Il vincolo é forte e
profondo, tanto é vero che fu la prima cima da me vanamente tentata prima
ancora degli albori della mia attività alpinistica. Una piccozza
affittata ed i ramponi raccogliticci, calzati su due scarponacci di cuoio
flessibili e pesantissimi, il maglione di lana fatto a mano ed una giacca
a vento modello “Zeno Colò” furono il misero equipaggiamento in mio
possesso. La volta buona fu nel
1992: dopo alcuni giorni di acclimatamento in quota, salendo alcune cime
del Rosa con un amico che non c’é più, mi decisi a tentare
l’”assalto finale”. Un martedì caldissimo di fine luglio mi recai
in Sezione, alla ricerca di un compagno con cui dividere la corda; ero però
così determinato a salire, che sarei partito anche da solo. Incontrai
Claudio, libero da tutti i suoi multiformi e svariati impegni: decidere in
un attimo la partenza fu semplice, passare tre ore di macchina in
piacevole conversazione fu un godimento, salire senza sforzo in una
bellissima giornata solare fu una grande fortuna. Finalmente avevo
raggiunto il Granpa, condividendo con una moltitudine di persone questa
esperienza irripetibile. Sono passati dieci anni: da allora non sono più ritornato al Granpa, anche se l’anno scorso ho tentato con Maurizio l’altra salita della parete nord; uno scarpone imbizzarrito gli (e mi) impedì di attaccare la via ‘Cretier’, lasciando segni e cicatrici nel contempo sulla sua gamba e sul mio morale. Perciò feci buon viso a cattivo gioco (vedi alla favola di Esopo “La volpe e l’uva”...), e rinfoderai i propositi bellicosi. Come detto, sono passati ‘solo’ una decina di anni dalle mie salite sul Granpa, ma sembra che una nuova concezione dell’alpinismo abbia scalzato le antiche idee. C’é un universo parallelo, alpinisticamente parlando, che si muove solidale con (ma distinto da) concetti prefissati e forme consolidate di attività. Da una parte l’estremo tecnicismo, lo spingere al limite – e spesso oltre – la ricerca di nuovi ed esasperati problemi su roccia e su ghiaccio; dall’altra parte un alpinismo ‘classico’ (ma cosa mai vorrà dire? forse che se non supero la difficoltà “D” sono ‘classico’, e se la supero sono ‘estremo’?), un alpinismo cioè tranquillo e sicuro, appagante ed ansiolitico, senza slanci epici e/o eroici. Mi viene in mente la rassicurante ripetitività degli itinerari: tutti gli anni le stesse salite, con gli stessi compagni, negli stessi periodi, con le stesse parole, con gli stessi gesti, perché comunque sul Penna ci si ‘deve’ salire, i “Genovesi” ‘vanno’ fatti e la capanna Margherita é un must. Ma forse é più ‘alpinista’ chi percorre sentieri, rispetto a chi effettua movimenti scimmieschi su massi a venti centimetri da terra. Tutto questo
rimugino, salendo verso il rifugio Chabod in questa strana estate 2002,
giunta cronologicamente in
orario, anche se la meteo non vuole sentirselo dire e non si decide a
mettere giudizio. Perturbazioni e maltempo imperversano sulle nostre Alpi
e sul centro Europa, provocando danni ingentissimi e disagi infiniti. In
montagna le condizioni abituali e consolidate negli anni sono mutate,
stravolgendo canoni e parametri istituzionali (la nord della Ciamarella a
maggio, il canalone di Lorousa a giugno, le prime salite in alta quota a
luglio). Le
luci delle frontali sciabolano nel buio della notte fonda, illuminando
vanamente il filo della morena che ci conduce al ghiacciaio. Da lì la
traccia suggerisce zig zag sempre più stretti e ripidi, fino alla parete
che si drizza impercettibilmente ma con continuità. Saliamo lenti (almeno
così mi sembra); oltrepassiamo la crepaccia terminale e cominciamo la
salita vera e propria. Un deja vù: sbirciando di lato verso destra, mi
sembra quasi di intravvedere le mie tracce di dieci anni fa, mentre
ripercorro con gli occhi della mente quella salita. Poi mi concentro di
nuovo sulle piccozze e sui ramponi, scrutando le rocce ed il cielo che
schiarisce. Charles
Trenet avrebbe cantato: “Que reste-t-il du Gran Paradis?” Davanti
ad un fresco bicchiere di prosecco sorseggiato in ottima compagnia, non
cerco la risposta ma vivo questi momenti senza l’obbligo di
razionalizzare a tutti i costi: non é ancora il tempo di azzerare i
ricordi e di cancellare i sogni. Mauro Mazzetti agosto 2002 |