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di
Eros Pedrini “Piove. Da
quanto non so. Mi sono svegliato e pioveva già. Dietro
le tendine i vetri del furgone sono completamente appannati: scosto quella
più vicina e subito cola acqua sul sacco a pelo. Merda!, non sopporto che
si bagni. Da
lei, che mi dorme a fianco, nessun segno di vita. Rumore
di cerniera che scorre, la mia. Puzza di piedi in aumento allarmante:
chissà perché si sente più la mattina che la sera, mi chiedo. Trovo
alla cieca un sandalo e una ciabatta, ma di fondamentale c’è che ho già
adocchiato la macchinetta del caffè. Preparata la sera prima per non
perdere tempo. Fiamma
del gas bassa, altrimenti brucio definitivamente il manico di plastica,
come ieri. E
lei, oh, lei farebbe finta di niente, solo una smorfietta come per dire
… ci risiamo, il solito distratto! Ma
oggi piove, e io non sopporto la pioggia, e non desidero cacciarmi in
nessuna stupida discussione, altrimenti la giornata partirebbe male. A
me il caffè piace forte, tanto e bollente. Lei dice che ho la bocca
rivestita di amianto, ma ho provato a berlo meno caldo e proprio non se ne
parla. Trattengo
ancora per qualche attimo la tazza ormai vuota fra le mani: mi perdo ad
osservarne i segni scuri rimasti sul fondo e intanto metto a fuoco che
dovrò uscire per pisciare. Potrei
aprire soltanto il portellone e farla, spudoratamente, senza nemmeno
scendere: però proprio a due metri è stata piantata una tendina. Devono
essere arrivati questa notte; ieri sera non c’era, ne sono certo. A
malincuore scendo e mi allontano di alcuni passi, sbrigo il dovuto e
rientro di corsa; ho i piedi fradici e resto lì, per alcuni minuti,
indeciso fra tornare nel sacco a pelo o leggere qualcosa. Fuori
continua a piovere: di arrampicare non si fa niente, oggi. Mi
sdraio e provo a dormire ma, una volta bevuto il caffè, io avrei voglia
di muovermi. Due minuti e mi ritrovo seduto, con in mano la guida:
arrampicare con la fantasia è l’esercizio di ripiego. *** E’
la quarta volta che vengo da queste parti e non sono mai riuscito ad
alzarmi di un solo metro su nessuna delle vie. Il
tempo mi era volato guardandola sgambettare nel grande prato. E’
qui che ha imparato a riconoscere, e mangiare, fragole e mirtilli. E’
qui che ha cominciato ad apprezzare le sue prime vere autonomie, guardata
con discrezione, a distanza. Io avevo più occhi per lei che per le grandi
placche dove gli amici si lanciavano su itinerari solari. La
sera loro raccontavano di diedri, di fessure, di cuori in gola su
minuscoli cristalli, di impossibili aderenze; Io,
invece, parlavo loro di Alice. Non
ricordo un’estate più tranquilla. Non che non desiderassi infilarmi un
paio di scarpette e appoggiare di nuovo le mani sulla roccia, ma nemmeno
lo sentivo indispensabile. Quando
penso ad un vero equilibrio vado a quei giorni: Alice è stata il mio
training autogeno. *** Poi
ci furono altre occasioni per tornare. Una
volta decidemmo di prenderci una pausa dagli impegni di lavoro, così,
all’improvviso. Un’idea
fiorita in fretta, come la primavera che stava arrivando. Un’idea, in
realtà, prematura, almeno quanto i tre giorni di sole in cui era
sbocciata. Arrivammo
qui proprio in tempo per prenderci l’ultima nevicata della stagione. E
che nevicata! Ci volle un trattore per riportare il furgone sulla strada,
e ricordo ancora l’espressione del contadino, a metà tra compassione e
incredulità. Ma come, non lo sapevamo che, da quelle parti, poteva
nevicare così anche dopo Pasqua? Per
un po’ smettemmo di pensarci. Una
sera vennero a cena alcuni amici e fu l’occasione per rivedere vecchie
diapositive. Ne capitò una di Alice, un sorriso pieno di mirtilli. Mi
incantò. Mauro,
invece che dal sorriso, fu attirato dalla lunga struttura di placche rosse
che partivano dal prato, sullo sfondo. Volle sapere dove e quando della
foto. Al momento di salutarci, finite le abbondanti munizioni di
grignolino, mi lanciò una proposta allettante: perché non andarci
durante le ferie estive? Così
mi accorsi che quell’amore covava ancora nel fondo. Era rimasto solo
assopito, in attesa di un nuovo risveglio. E
ci fu una terza volta. Arrivammo
col buio, ci sistemammo al solito posto e ci preparammo una cena con i
fiocchi. La notte era meravigliosa, il tempo ottimo e i ragazzi del camper
di fianco, nello spazio di un caffè, ci diedero le dritte sui migliori
itinerari, sui materiali e sui tempi. Fu una doccia fredda sentire, al telefonino, la voce di Franco che, con il groppo in gola, ci avvertiva dell’incidente. Marisa e Carlo erano volati via, colpiti dai sassi sulla via dove si erano conosciuti e che, da allora, ogni anno tornavano a rifare. Era la loro via, lo sarà per sempre. Poche
ore dopo, fuori da uno sconosciuto ospedale, assieme a tanti altri ci si
interrogava su infiniti perché e su improbabili se, senza risposte e
senza speranza. *** Gli anni sono volati. Alice
va all’università, il furgone resiste non si sa come, anche se la
ruggine avanza sotto i mille adesivi, e siamo tornati per la quarta volta. E
piove. Anzi, piove da matti. Io
però sono deciso, di qui non mi muovo senza aver fatto almeno un metro,
fosse anche sulla via più brutta. Ormai,
di tempo ne ho quanto serve: sono in pensione, io.” *** Ho
ritrovato questi appunti su due fogli di carta povera e stropicciata,
ripiegati irregolarmente (o forse nascosti frettolosamente?) all’interno
di una guida d’arrampicata adocchiata in un negozietto di libri usati.
La scrittura è minuta ed essenziale, piuttosto irregolare; il testo contiene
numerose correzioni e cancellature ma, alla terza rilettura, risulta
oramai scorrevole e persino un po’ più familiare. Leggendolo mi scopro
eccitato ed emozionato come quando, da bambino, mi capitava di
trovare un soldo per strada: questi fogli però sono veramente un tesoro,
almeno per me. Si
direbbe che l’intero scritto sia stato buttato giù con un certo impeto,
come per non perdere dei ricordi riaffiorati tutti insieme: forse una
pagina di un diario personale, forse una comunicazione ad alta voce per
qualche amico di fantasia, anche se io sono più portato a crederlo un
breve racconto autobiografico, destinato, nelle intenzioni, a restare
privato. Il piacere di scrivere per sé. C’è
una foto di grandi placche rossastre su una delle pagine fra le quali
erano nascosti i fogli: io non riesco a fare a meno di pensare che quello
sia davvero il posto a cui “lui” si riferisce. Oppure, molto
probabilmente, mi fa solo piacere pensare che sia così. Ad
ogni buon conto devo confessare che mi sta montando dentro una certa
curiosità di andare a dare un’occhiata, a quelle placconate: non si può
dire che siano proprio a due passi, però potrebbe essere l’occasione
buona per rimettere le scarpette dopo una lunga stagione di sci, scarponi
e pelli di foca. Potrei
sentire Emanuela e chiederle se le va l’idea. Uno dei prossimi week-end
sarebbe l’ideale e non dovremmo trovare nemmeno molta gente. Non amo
molto la confusione, anzi, se non ci fosse nessuno tanto meglio. Anche
se un vecchio furgone con mille adesivi … beh!, quello mi farebbe
piacere trovarlo! |