A BACK - DOWN
Le nuvole e i tempi
di Rita Vassalli
Qualcosa di rigido le premeva sulla nuca.
Gli zigomi si alzavano e gli occhi si stringevano nello sforzo di
compiacere i muscoli del collo, tesi a far fronte a ben più di un
fastidio, che prendeva sempre più connotazione di dolore. Fu allora che
gli occhi, dopo moti inquieti ed involontari, stanchi per la battaglia
intrapresa, decisero di riposarsi nella loro contemplazione.
- Strati… cumuli… cirri… … Ma quanti tipi di nuvole ci sono?
Quante volte la stessa domanda.
A lei era sufficiente conoscerne almeno i due tipi cui si associano i
cambiamenti più repentini in montagna.
Non che non le sarebbe piaciuto averne una più profonda conoscenza, ma
erano un po’ come per le cime dei monti, li amava, li adorava, invidiava
chi faceva sfoggio di nomi e riferimenti geografici, ma la sua memoria
selettiva, o limitata dir si voglia, le impediva una catalogazione e una
fissazione.
Cirrostrati… cirrocumuli… nubi….
Nuvole fuggiasche, sfilacciate o tronfie, se ne stanno là, dove spesso
sono volati i suoi pensieri, dove avrebbe voluto tante volte, trovarsi
anche lei.
Bianche, altissime, strette o allungate come quel giorno, con i loro
contorni ben arrotondati che infondono serenità, si rincorrono aeree e
leggere, senza fretta, con moto continuo e inesorabile. E’ il procedere
stesso del tempo, quasi per inerzia, costrette a quel gioco simbolico e
plasmabile a cui lei adorava abbandonarsi.
Nuvole come mandala mobili e fluttuanti, foriere di messaggi.
Non a caso i sofisti, portatori di concetti quali erano,
s’identificavano in loro.
Piacevole abbandonarsi a quel gioco dell’infanzia che sempre più aveva
perso, in linea con i tempi o il suo tempo.
Si sarebbe potuto pensare che anche a lei le nuvole sembravano
ultimamente interessare solo come emblemi della meteorologia e del tempo
atmosferico, perché oggi, quasi più nessuno guarda in alto e il senso
del trascendente nella natura purtroppo si è perduto.
Spettacolari cristalli di vapore acqueo, altro non erano.
Gli occhi fissi in alto, alle nuvole per carpirne anche il più
impercettibile movimento, coglierne le loro molteplici sfaccettature. Ne
ricercava una forma che, appena intravista si modificava già.
Avrebbe fermato il tempo, se solo avesse potuto, per tutto quello che
desiderava.
- Guarda! Quella sulla destra! Grossa e paciosa come un elefante!
Sì! Sembrava proprio un bel pachiderma che lemme lemme avanzava non
senza esibire la propria possanza.
Ma ecco sopraggiungerne in poco tempo un’altra. Avvolge e si fonde alla
prima forma individuata. Quel che era la prensile proboscide si allunga
assumendo forma più rigida.
E’ la prua che termina esile e sottile,
quasi fosse il prolungamento dovuto a una spingarda. Un vero e proprio
albero di bompresso.
Si riallunga quella forma divenendo ai suoi occhi
snella e protesa, lasciando intravedere il fianco sormontato da tozze
vele gonfie di vento.
Un veliero se ne va sospinto per un po’ in quel mare azzurro, valicando
lontani crinali come solo nella fantasia può succedere, fino a quando la
cima di una montagna ne sperona la carena.
Si sfalda, si sfilaccia, si
deforma com’è nella sua natura.
Il varco creato lascia di nuovo intravedere l’azzurro del cielo,
lontananza infinita e indefinibile. Separandosi tra forme e informe, le
nuvole lo incorniciano, creando figure ambigue poiché l’una non riesce a
“emergere”rispetto l’altra che le fa da sfondo.
Nessun rumore particolare le faceva distogliere lo sguardo dalla
soffice coltre bianco-azzurra, se non quello del silenzio che si stava,
a poco a poco, impadronendo dei suoi pensieri.
Erano partiti anche quel sabato alle prime luci dell’alba.
Il giorno prima e quello prima ancora aveva piovuto, ma era stata
prevista per l’indomani un’ottima giornata di sole e il vento leggero
avrebbe in breve asciugato la roccia.
La bruma del mattino, come una garza, avvolgeva alberi, fienili,
tralicci della luce rendendo surreale il paesaggio di bassa pianura che
scivolava accanto all’autostrada che portava a Padova.
La foschia si fece trovare all’imbocco della Padova-Belluno, ma da lì a
poco, prima di Vittorio Veneto, prese a splendere il sole, per nulla
intimorito delle nuvolette che gli facevano da corolla.
Poche soste, ma nessuna fretta spasmodica di arrivare. Forse l’età e una
più matura coscienza, avevano entrambi imparato a gustarsi le situazioni
che giorno per giorno la vita poteva loro regalare.
Oltrepassata la frazione di Cernadoi, proseguirono come tante altre
volte verso il Falzarego.
Costeggiarono la caratteristica chiesetta del Passo che vezzosa copia le
linee del suo tetto dal sovrastante monte e girarono a sinistra per
percorrere gli ultimi Km che li avrebbero condotti al parcheggio.
- Ma guarda che abbondanza di residui nevosi. Perché è neve quella,
no?
Anche lui guardò fuori dal finestrino dell’auto.
- Ma certo! Con l’inverno che abbiamo avuto cosa vuoi che siano?
Nuvole basse?!
Inconfondibile il paesaggio costellato da blocchi calcarei, segno di
grandi frane, che affioravano ai lati, prevalentemente il destro e che
immancabilmente a ogni tramonto avrebbe conferito al paesaggio
quell’aria immota, spettrale e lunare che afferra con malìa colui che
guarda.
E tanto le piaceva, vuoi perché la giornata giunge al termine, e
nel bene o nel male ne tiri le somme, vuoi perché ti illudi di essere un
beato abitante di un paradiso in cocci, come ha scritto qualcuno.
Avevano parcheggiato come sempre fra camper e auto sistemate in modo
selvaggio, quasi l’attacco alla parete per alcuni, sfegatati ammazza
gradi, come qualcun altro li aveva ben definiti, fosse questione di vita
o di morte.
Soliti rituali per prepararsi e incamminarsi.
Ferraglia che risuona e
luccica al tiepido sole e tonalità sgargianti d’indumenti tecnici che
scaldano l’approccio fuori dall’abitacolo che li ha portati a
destinazione, anche in virtù della forza del proprio colore, lei ci
credeva alla potenza della terapia del colore!
- Hai messo il carapace? – chiese l’uomo.
Il carapace, avevano preso a chiamarlo così, altro non era che una
grossa cintura da motociclista con scudo protettivo dorsale, molto
simile per l’appunto, al carapace di una tartarugona nera.
Infallibile panacea che le aveva ridato un minimo di sicurezza in più
dopo quel verdetto sentenziato:
“Un altro trauma alla schiena e lei si ritroverà su una sedia a
rotelle, mia cara signora”.
Quando la punta di uno sci va a urtare contro l’altro, cadi in
avanti. Nelle maniche, a volte nel collo o nelle narici, s’infila neve
bruciante, ed è difficile rialzarsi, soprattutto se gli attacchi non si
sono sganciati.
Un tonfo sordo ne era seguito che, immediato si era ripercosso al
rachide. Una brutta caduta che l’aveva definitivamente allontanata dallo
sci, ma mai avrebbe pensato che a quindici anni di distanza generasse
l’attuale instabilità vertebrale.
Catapultata da quel ricordo a riconsiderare il mondo del razionale, ne
avvertì immediato un disagio.
Quel fastidioso contatto alla nuca l’aveva bruscamente richiamata al
presente.
Con movimenti rallentati, dettati dalla paura di avvertire dolore, girò
il capo che avvertì racchiuso in un qualcosa che le manteneva,
nonostante tutto, una minima libertà di azione. Forse pochi secondi che
senz’altro tali non le sembrarono, ma realizzò. Era il suo casco. Il suo
casco rosso del quale non sentiva più il sottogola. Ciononostante era
rimasto al suo posto e ora premeva, intercapedine tra la sua testa e il
suolo.
Era sdraiata, proprio come quando giocava con il fratello, nella
limitata e afosa penombra del cortile di casa a dar forma alle nuvole.
Anche quel giorno e in quel momento, il cielo sembrava un quadro di Constable, fatto solo di nuvole che hanno vita e corpo.
Come allora, il sole era alto, ma non la riscaldava nonostante fosse un
sereno giorno di primavera inoltrata.
Anno strano quello. Meteorologicamente parlando e non solo.
Sembrava che nulla più rispondesse al suo conosciuto, e non solo per
quel che riguardava l’altalenarsi delle stagioni.
L’attenzione richiamata dalla presenza di quel casco, l’aveva
allontanata dal resto che la circondava. Quasi non fosse possibile
attivare contemporaneamente più canali percettivi, quasi il cervello non
ne sopportasse il peso.
Un leggero vento si era alzato, e sospingeva lontano quel mare di
nuvole. Forse quella la causa che le toglieva il calore dal corpo.
- Chissà dove staranno veleggiando... altri si perderanno a
osservarle con il desiderio di trasferirvi il peso dei propri pensieri,
farli diventare aerei e impalpabili come le stesse nuvole… E’ forse
veramente una perdita di tempo guardare il cielo, sia esso terso o con
nuvole o con stelle?
Così riteneva un proverbio di probabile matrice contadina, ma
indubbiamente per lei o chi come lei, era solo un allontanarsi dal
razionale, dal concreto, dal reale per tuffarsi nel mondo delle emozioni
dove qualsiasi pensiero possedeva connotazione immaginifica.
Quante volte aveva invidiato le ali degli uccelli. Ma ali non aveva,
aveva solo due braccia che ora come non mai avvertiva pesanti ed
immobili.
Roteava gli occhi e il capo quel tanto che la posizione, sempre più
scomoda, le consentiva e vide l’orizzonte che cadeva sotto il suo
sguardo sembrare vacillare, tremare.
Il sole a picco, forse l’una o poco più, rendeva gelatinoso e danzante
tutto ciò che lo circondava. Fili d’erba tremuli, ma anche solide rocce
che in quella danza perdevano tutta la loro solennità. Non male
l’effetto sullo spirito. Come quando si è un po’ ebbri e ciò che ci sta
attorno, anche la cosa più austera, non è più ferma e rigida nella
propria immobilità. Colpa dell’umidità che evapora o tutto le sembrava
circonfuso da quell’alone tremulo che dà il pianto?
Cercare di realizzare cosa ci faceva in quella posizione e perché era lì
da sola, sembrava impresa titanica.
Il venticello aveva quasi ripulito il cielo, spazzandole via dal pascolo
delle sue chimere, appoggi e appigli per i suoi sogni. E’ lieve, se ne
rende conto, ma è per lei quel vento freddo che si muove con la velocità
della paura.
Paura, che nel batter d’ali d’una farfalla si trasforma in terrore che
paralizza se mai avesse avuto in animo di muoversi da quella posizione.
Una scarica di pensieri attraversò il suo cervello. Pensieri brevi,
sconnessi. Quei pensieri solo in grado di prendere atto della
situazione, come quelli che si hanno quando si sta per perdere
l’equilibrio, per cadere… già, cadere.
E in quel momento invidiò la capacità visiva di una mosca, nonostante
fosse, dopo lo scarafaggio, l’insetto per lei più disgustoso.
- Immobile come un ragno e capacità percettiva di una mosca, kafkiano
non c’è che dire!
Gli occhi sembravano l’unica parte vitale del suo corpo, oltre al cuore.
Quest’ultimo aveva iniziato a battere fragorosamente in petto, come se
avesse taciuto per tutto il giorno e ora volesse approfittare del
silenzio che regnava intorno e scappare da quel contenitore inerte.
Era così strano, tutto così sospeso. Non c’era altro rumore che quello
del suo cuore.
Non le piaceva ciò che vedeva da quella prospettiva. Ovvero, era tutto
ciò che più le piaceva, e cioè, per dirla con una parola sola, montagna,
ma era quello che stava prendendo corpo nella sua mente e che calava a
poco a poco sulle cose, come una gigantesca lente deformata, che gliene
proiettava una visione distorta.
- Ma dove diavolo sono finite le nuvole?!
Magari era proprio il veliero di Matthew Barrie che se ne va
gioiosamente col suo carico spensierato.
A vele intatte e non flagellate ancora dai venti e dai tempi, facendo
rotta verso terre ignote.
Il tempo si dilatava e si contraeva attorno a lei. Come una fisarmonica,
secondo l’assenza o della presenza di nuovi elementi che potevano cadere
sotto il suo sguardo che era tornato a vagabondare, in quella che stava
diventando sempre più, una disperante immobilità.
Il tempo non era più fatto di minuti, ma di continui balzi e ritorni
indietro, soprattutto lontano perché i ricordi tornano se ne conserviamo
l’odore ed il sapore, e di quelli ne custodiva gelosamente le
percezioni.
Fu in quel vagabondare di sguardi e pensieri che la vide.
Tesa verso il basso, poco distante da lei penzolava la corda.
- La corda per la doppia! La discesa…
Cosa non avesse funzionato non se l’era fino a quel momento chiesto,
anche perché fu in quel momento stesso che rese concreto quel fatto.
Era stata una bella arrampicata. L’aveva fatta anche quella volta senza
particolari difficoltà. Certo era una salita non di troppo impegno, ma
si sa, tutto è soggettivo. E poi le condizioni che le piacevano c’erano
tutte. Una bella giornata, solo un po’ fresca soprattutto nelle prime
soste in ombra, ma la circolazione alle mani non era andata in stop,
come amava dire, e il freddo non le aveva rubato le dita.
Una buona
roccia granitica e quindi molto salda, con la quale amava confrontarsi,
anche quella non particolarmente impegnativa perché offriva appigli e
appoggi anche a un “salitore” del suo calibro, ma come detto prima tutto
è relativo. Infine quell’esaltante senso di libertà mista a
soddisfazione, che gustava ogni una volta raggiunta la cima, là dove si
respira il cielo.
Mantenendo l’immobilità del corpo, non sapeva ancora quanto imposta o
quanto subìta, gli occhi presero a fissare la corda, elemento inanimato
che la stava riportando sempre più velocemente alla realtà.
In quella realtà dove accadono cose che, se pur prendi in considerazione
e metti con una sorta di esorcismo in preventivo, rimane sempre la quasi
convinta possibilità succeda solo agli altri.
Era stato bello godersi quello spettacolo che sempre si rinnovava sulla
cima. Era pure stata una salita “condivisa”, nel senso che anche quel
giorno, aveva seguito diligentemente, come un bravo ragnetto legato al
suo filo, il suo capocordata senza svicolare da alcun passaggio
impostole.
Ripensava al piacere che la serenità di quei luoghi le riuscivano a
infondere.
Anche quella volta non aveva mangiato più di un cioccolatino, o qualche
piccolo pomodoro. Avrebbe potuto, nelle sue escursioni o arrampicate…
far a meno di portare nello zaino cibarie. Ma sapeva che estimatori ne
avrebbe sempre trovati e per di più le era giustamente stato insegnato
che in montagna può accadere l’imprevisto.
Qualcosa con sé, e per il freddo, ma per quello non c’era problema,
temendolo molto aveva sempre con sé più del necessario, e per il
sostentamento, bisogna sempre prevedere.
- Vuoi l’uovo sodo?... Certo che ho pure il sale! – aveva chiesto
come il solito una volta arrivata in cima e posata l’attrezzatura -
cosa non farei per il mio capocordata eh?! A te la zavorra, a me le
uova!
Le piaceva non apparire débrouillard, giocava al ribasso, un po’ per
vera modestia, un po’ per cercare conferme che sapeva o sperava di
trovare di solito nell’interlocutore, qualsiasi egli fosse.
- Piuttosto che togliermi l’imbrago per la pipì me la potrei fare
addosso! Sempre i soliti fortunati voi uomini. E poi dove diavolo mi
acquatto! Dai, girati finché non ti dico che ho finito.
Disagi fittizi dettati da abitudine e pudore, che la consuetudine alla
frequentazione della montagna aveva però ricalato nella loro naturale
condizione umana.
- Ma dai!... Ho sfilato tutto!- imprecò la donna – La
cintura!… l’ho fatta uscire dall’anello!
- Cos’è che combini? Che cosa vuol dire ho sfilato tutto? – le
chiese l’improvvisato Pantagruel dei monti mentre trangugiava l’agognato
pranzo a base di uova, pane e banana e tutto ciò che nel giro di pochi
minuti gli passava tra le mani.
Il ritorno che li attendeva lo conosceva, nessuna discesa per roccette o
canalini ghiaiosi, ma pochi metri per cengetta e un accesso da non
sottovalutare all’attacco della doppia in cima a un camino.
Spesso le tornavano alla mente le due doppie compiute un anno o due
prima al Passo Giau, discese sotto la grandine e i tuoni di un temporale
che li stava accerchiando, e mai discese furono così veloci!, ma era pur
sempre come la prima volta quando si accingeva a “tuffarsi nel vuoto”.
Diverso era quando la roccia le era vicina quel tanto da poggiare anche
solo la punta delle scarpette su di essa.
Era in fondo il momento del “salto” dell’abbandono dei piedi con la
terra ferma, che le creavano ansia che spesso dissimulava.
Certo che quando ci ripensava si rendeva conto del controsenso, della
totale incoerenza che albergava nel suo modo di affrontare gli eventi.
Desiderosa spesso di evadere dal concreto per rifugiarsi nel mondo delle
emozioni, magari fantasticando fra le nuvole, e al tempo stesso volervi
stare attaccata con le unghie e con i denti, in quel caso con i piedi
ben per terra.
Quel giorno le sembrava di essere più titubante che mai. Ne conosceva
bene però la probabile causa, quello che le era suonato come diktat,
datole due anni prima. Come spada di Damocle le pesava da allora su ogni
movimento che le potesse far sbattere la schiena su discesa dolce o
impervia, roccette, ghiaione, roccia… Ma si era sempre detta che anche
cadere dalla bicicletta nella sua tranquilla città delle biciclette,
sarebbe potuto essere per lei un grosso pericolo e quindi, si ripeteva,
possibile vivere in quella che lei chiamava una campana di vetro dove
manca l’ossigeno e a poco a poco ti senti spegnere lentamente?
Forse si
era ostinata disperatamente a non voler vedere o tener conto dei propri
limiti, ma il tempo per lei non era più un lusso inesauribile e questa
consapevolezza aveva orientato la sua scelta di come farne fronte.
- Dai, sporgiti all’indietro. E’ tutto a posto, no? – disse
l’uomo, con voce tranquillizzante, ma che lasciava trasparire sfumature
d’impazienza o forse incredulità a quel rinnovarsi di timori.
Si ricordava bene le proprie mani che per l’ultima volta, ma sotto lo
sguardo esperto del suo compagno di cordata, avevano ripercorso i
passaggi della manovra. “Autobloccante, ok. Ghiere ben chiuse…”
- Quindi?... Possibile sembri sempre alla prima volta?! Dai, una mano
sopra e l’altra dietro. - incalzò il compagno quasi a darle la smossa
necessaria.
Non doveva più rimandare, l’indecisione sarebbe potuta sembrare vera e
propria paura e lei questo non lo voleva. S’impadroniva così di lei
quella che definiva eccitazione ansiosa, quel tanto bastante a lasciarsi
andare.
- Come va? - continuava a rassicurarla - Vai dritta, segui la
corda!
- Tutto bene - aveva risposto.
Sì, fino a quel momento era andato veramente tutto bene come sempre.
Cosa non avesse funzionato in quella discesa, che come ogni cosa
appare tranquilla fin quando non succede un fatto che la altera, lei non
riusciva a spiegarselo.
Era quasi arrivata. Se lo ricordava.
Aveva visto avvicinarsi piccoli
cumuli di foglie macerate dalla neve del passato inverno, incastonati
fra le rocce che puntellavano la cengia e spargevano tutt’intorno un
odore amaro di acqua e terra. Erano questi i segnali che inviavano al
cervello l’informazione attesa.
Mancavano pochi metri al suolo, se lo
ricordava bene perché quello era il momento in cui avrebbe pregustato
una nuova rilassata pace.
Era stato uno strappo, qualcosa si era strappato. Ricordò il suo corpo
sobbalzare a quell’imprevisto. Tanta era stata l’incredulità che un
fatto grave le stesse succedendo, che non era riuscita a reggersi a
quella corda, unica speranza alla quale avrebbe potuto tentare di
aggrapparsi.
Un volo.
Una caduta da alcuni metri.
Ma per quella colonna scomoda che si portava nella schiena, fragile e
che da due anni in qua le stava sempre più dando, momento per momento,
la coscienza di quanto limitante fosse diventato il suo porsi agli
eventi, era senz’altro alla pari di un volo ben più alto.
Ora era lì, sdraiata al suolo e non aveva il coraggio di muovere
qualsiasi altra parte del corpo che non fosse nel capo.
Non avvertiva nessun dolore particolare se non quello che il casco
cominciava a procurarle alla base della testa e quello che sentì
improvviso, ma che non richiedeva sforzi, né singhiozzi. Le lacrime
scaturirono così, da sole, senza pretendere nulla da lei.
Il silenzio che iniziò ad ascoltare le parve ancor più duro da
sopportare del più assordante frastuono.
Avrebbe atteso, ma non si sarebbe mossa. Non ce l’avrebbe fatta a
prendere atto di una più che irreversibile immobilità annunciata.
Rinunciataria, rassegnata suo malgrado, ma anche la disperazione va
allontanata e posticipata.
Di nuovo il vento era tornato a farsi sentire, poco più di una brezza a
dire il vero, ma poco gradito a un corpo già infreddolito. I capelli
sgusciati fuori dal casco le solleticavano la fronte.
Li allontanò col
solo movimento del collo, reclinandolo all’indietro e facendoli
scivolare di nuovo al riparo del casco. Fu da quella posizione che
scorse i ramoscelli di alcuni arbusti che si stavano approntando per
regalarle un po’ di ombra di cui avrebbe fatto volentieri a meno.
Doveva stare calma e attendere, questo si ripeteva. Il compagno
l’avrebbe raggiunta a breve. Bastava aspettare.
Fu riportando il capo verso il petto che vide.
Tra lei e il sole c’era una presenza che le riempì sempre più il campo
visivo.
La sagoma, apparentemente un uomo, irradiava l’alone azzurrognolo
provocato dalla luce abbacinante che gli stava alle spalle. Splendeva
come del pulviscolo che voli per casa.
Questo aumentava a conferirgli la vaghezza di ciò che sembra
soprannaturale perché non subito riconoscibile.
Mise a fuoco più che poté la sua vista.
Non era certo il suo compagno, anche se sulle prime l’era sembrato
potesse trattarsi di quel viso conosciuto per via dei fini capelli color
sabbia, solitamente incolti e una barba bianca giallastra che gli
conferivano spesso un’aria trasandata tra il rude alpinista o l’
anacoreta.
Fu l’aspetto anacronistico che rese inquietante ciò che iniziò a
delinearsi.
Indossava un completo a tre pezzi, con tanto di gilet a due bottoni
stile ‘800 degno di un alpinista come Paul Preuss, ma …completamente
bianco.
La luce che ne sprigionava al riflesso del sole era impercettibilmente
attenuata per brevi sprazzi, da stoffa grigio-celeste nella fattispecie
della camicia dal colletto rigorosamente inamidato come i due polsini
che sbirciavano dalla giacca, ai lati dei quali troneggiavano polifemici
occhi luccicanti al baluginare del sole, gemelli d’oro che richiamavano
per fattezza e splendore un piccolo anello uncinato al lobo sinistro.
Qualcosa, sempre rigorosamente bianco, gli sporgeva da dietro le spalle.
Non era uno zaino perché non ne vedeva gli spallacci. Era un qualcosa
che sembrava dotato di vita propria, si alzava e abbassava facendo
capolino dalle spalle, senza che queste o altra parte del corpo si
muovessero.
- Buongiorno! Ben arrivata – aveva una voce ruvida e dolce al
tempo stesso, come canna da zucchero.
- Sento freddo – furono le uniche parole che lei riuscì a
emettere.
Lo vide allora scostarsi leggermente da lei per cercare una posizione
diversa ma pur sempre accanto. Non le sfuggì una smorfia di dolore sul
suo viso alla quale seguì un flebile lamento.
- Mi sei caduta addosso sai? Proprio come un sasso che
improvvisamente si stacca da quanto di più caro l’ha custodito fino a
quel momento. Non facevo che urlarti Tirati su! Riattaccati alla corda!
Niente da fare, ti sei lasciata sgusciare fuori dai tuoi cosciali come
una lumaca dal guscio.
Mentre le raccontava queste cose, armeggiava col proprio corpo per
stendersi accanto a lei senza non incontrare troppe difficoltà. Ogni
tanto la fissava con i suoi occhi pallidi come l’aria prima dell’alba.
Si appoggiò sul fianco destro. Sapeva di gelo e profumo. Aiutandosi con
entrambe le mani e le braccia, portò avanti ciò che prima aveva visto
far occhiolino dalla sua schiena, una grande ala bianca che le ricoprì
il corpo.
Lo vide digrignare i denti per lo sforzo ed il dolore, ma senza mai
abbandonare il suo sorriso serafico.
Aggrottava le sopracciglia nello sforzo e gli occhi azzurro chiari che
si posavano ora sul proprio arto, ora in quelli di lei, divenivano
penetranti come aghi. Si appoggiò all’avambraccio destro e cercava di
muovere impercettibilmente l’ala ferita per ricoprirla al meglio e
riscaldarla.
Un angelo con un’ala spezzata le stava accanto. Un’ala che lei aveva
spezzato. Lembi ricciuti e soffici si smuovevano al vento e le accarezzavano le
braccia, mentre la sua mano diafana da lunghe e affusolate dita, cercava
di sistemare i capelli della donna che, ribelli, continuavano ad
agitarsi fuori del casco, peraltro unica parte del suo corpo che non
voleva assoggettarsi a quello stato di completa immobilità.
L’angelo, incurante delle gocce di sudore che presero a imperlargli la
fronte, alzava, abbassava, sfregava e aggiustava quell’ala, quasi fosse
una coperta da rimboccare in un abbraccio caldo, mentre alcune costole
s’inarcavano scomposte sotto quei movimenti.
A volte aiutandosi con le mani afferrava le povere ossa rotte e con
decisione sprezzante del dolore le risistemava d’autorità. Altre, in
sfida con se stesso, cercava di comandarle con il solo input del
cervello.
- Lo sai che se muovi un po’ il corpo ti riscalderai più in fretta,
no?! Dai, smuoviti un po’. Prova…
Ma la sua vigoria e determinazione sfacciatamente in contrasto con
l’apatia di lei, non la contagiò. Diverso è ritrovarsi qualche costola
rotta da una colonna vertebrale paralizzata!
No, lei avrebbe aspettato il suo compagno e forse anche allora avrebbe
ulteriormente aspettato e rimandato all’infinito lo scontro con una
realtà che già sapeva, non voleva accettare.
Bastava restare immobili e aspettare.
Che fretta aveva di dare certezza a ciò che stava diventando una
terrificante sensazione di conferma.
Un profumo fatto di pelo umido e odoroso evaporava fumigando, e si
ritrovò a pensare che, se mai anche le nuvole tornate a spennellare il
cielo e tingere di luce ambrata i monti circostanti, avessero emanato un
qualche odore, sarebbe stato quello.
Il cuore non le batteva più accelerato e il respiro le sembrava
regolare. Quasi i muscoli e le funzioni vitali si fossero rassegnati a
una malia. O forse era quella presenza eterea a dilatare il tempo.
Strati… cumuli… cirri… le nuvole erano tornate più estatiche che mai
nella loro veste pre crepuscolare, tuttavia incapaci ora di strapparle
quel caos d’immagini che le si andavano formando in testa.
- Guarda! Quella sulla destra! Grossa e paciosa come un elefante!
Sentiva una profonda stanchezza, ma tanti pensieri affollavano la sua
mente. Non ultimo quello di aver tolto anche a un angelo la capacità e
la gioia del volo. E il cuore le si strinse in un groppo lacerante.
- Là, guarda da quella parte! E' tornato pure il tuo veliero!
Cirrostrati… cirrocumuli… nubi….
Avrebbe aspettato, come si aspetta il sopraggiungere del sonno, in
quello stato che lo precede in cui la mente è troppo debole per
raccontarsi delle bugie.
Rita Vassalli
Ferrara, autunno 2010
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