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di
Mauro Mazzetti Quante
volte un presentimento fa la differenza tra la vita e la morte? Quante
volte una rinuncia ci mette al sicuro da incidenti e pericoli? Quante
volte il caso ci risparmia, nonostante i nostri errori? Appeso
per una mano ad una corda, penzolo come un salame in uno stretto canale di
ghiaccio. Non ho avuto tempo per filosofeggiare argutamente sui grandi
temi della vita: solo un riflesso animale mi ha evitato di carambolare
verso il basso, come una palla di biliardo che sbatte da una sponda
all’altra fino ad entrare in buca. Solo che qui il biliardo è messo in
verticale ed è alto – più che lungo – almeno duecento metri; in più
non è di panno verde, ma di ghiaccio biancastro. L’atterraggio alla
sosta sottostante, durante le calate in corda doppia, richiede grande
attenzione e va effettuato sempre in sicurezza, cioè abbandonando il
punto di arrivo solo dopo essersi assicurati a quello della calata
successiva. Eppure quella mattina ho fatto ciò che non va mai fatto.
Tolti il discensore ed il nodo autobloccante, ho camminato slegato sul
ghiaccio lucido: solo tre passi, ma già dopo il primo ho “sentito”
che sarei scivolato, come quando all’Università mi sedevo sulla sedia
dell’interrogato percependo con esattezza che non avrei superato
l’esame. Secondo passo: sto per perdere l’equilibrio, il rampone del
piede destro salta via. Terzo passo: entrambi i piedi sono già oltre la
piccola cengia, nel vuoto che precede una caduta inarrestabile. Alzo lo
sguardo e vedo il mio compagno che ha passato la corda nel moschettone
della sosta, calandone il primo capo verso il basso; allungo la mano
sinistra, io che mancino non sono, ed abbranco quell’esile possibilità.
Non sto a pensare a tutta la mia vita, oppure che sto per cadere con
conseguenze fatali, oppure ancora che la corda singola si sfilerà dal
moschettone. Agguanto la corda e aspetto: non cado ma rimbalzo come uno
yo-yo, poi risalgo a braccia quei pochi, infiniti metri, che ho percorso
come una bomba di profondità, mi aggancio alla sosta e ricomincio a
respirare. Nemmeno
gli strateghi militari avrebbero congegnato un piano così
particolareggiato. Salita per un versante e discesa per l’altro, più
facile, con collegamenti in corriera studiati al minuto secondo. Eppure
qualcosa non sembrava andare per il verso giusto. Già il sogno di Roberto
(noi tre su una minuscola barchetta, con all’orizzonte una gigantesca
onda incombente) mi faceva cercare senza risultato una posizione comoda
sul sedile dell’automobile; e poi alcuni microfatti durante la salita al
bivacco (Maurizio che cade rovinosamente nel torrente, bagnandosi tutto
mutande comprese; io che sbatto dolorosamente il gomito, rovinando da un
roccione che si mette inopinatamente a rotolare senza sollecitazioni;
tutti e tre che sbagliamo strada, regalandoci un’aggiunta supplementare
e sgradita di dislivello in discesa ed in salita; il tempo uggioso, con
una pioviggine minuta e continua che rende saponose le roccette durante
l’avvicinamento a quel nido d’aquila). Ed il giorno dopo, una traccia
che si perde nella nebbia e che ci fa consumare inutilmente tempo
prezioso; dopo un cieco girovagare sotto il grande circo montuoso,
riusciamo a vedere la nostra parete, solcata da un’incisione enorme che
sembra scavare dentro le nostre certezze, indebolendone la forza e la
determinazione. Eppure, eppure valichiamo la crepaccia terminale,
incuranti di quel brivido elettrostatico che ci fa rizzare i peli delle
braccia. Saliamo di poco sopra l’attacco, forse cinquanta metri di neve
molle ed infida; poi ci fermiamo e ci guardiamo negli occhi: solo un
cenno, concordi giriamo di centottanta gradi e riguadagniamo in tutta
fretta il bonario plateau
nevoso. Dieci minuti dopo, mentre stiamo commentando la nostra decisione
di ritirarci, il picco roccioso sulla destra della parete si schianta
senza preavviso e rotola frammentato nel toboga di ghiaccio dentro il
quale eravamo passati durante il nostro tentativo di salita. Massi di ogni
dimensione trascinano accumuli immensi di neve, spianando le asperità del
terreno e colmando la crepaccia terminale. Non
crediate a chi vi dice di non aver mai “sentito” niente, a chi non
accetta lo shining, la
preveggenza. Mauro
Mazzetti
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