L’incidente
di
Marco Pedretti
Stavo
scivolando, avevo messo il piede sul bordo troppo esile del crepaccio,
cosicché ero sprofondato fino a sbattere il sedere e il fondo dello zaino
sulla neve ghiacciata.
Mi ero sbilanciato ed il peso dello zaino mi aveva fatto ruotare le spalle
verso valle.
Subito con la piccozza, che tenevo nella mano destra, avevo provato a fare
pressione per cercare di piantarla il più profondo possibile, ma la neve
non era più dura come nelle prime ore del mattino e la punta della
piccozza si era sfilata come se fosse un ago incandescente piantato nel
burro.
Ero completamente disteso sullo zaino con la testa verso valle e scivolavo
come su di un bob.
Mi sembrava di essere una tartaruga rovesciata, scivolavo sulla mia
corazza agitando le zampe all’aria, inutilmente.
Dopo il primo tentativo di fermarmi con la piccozza piantata di punta,
stavo riprovando a piantarla violentemente come se fosse un piccone, ma
avevo ormai preso troppa velocità.
C’era qualcosa di buffo in quella situazione e quasi mi veniva da
sorridere.
Era come se mi vedessi dall’esterno e mentre pensavo “ ora mi
fermerò sicuramente “, pensavo altresì alla cima che avevo appena
scalato, al fatto che lo avevo fatto in solitaria (ed era la prima volta),
perciò non poteva finire in tragedia, sarebbe stato troppo banale.
Sorridevo inoltre perché mi immaginavo già i titoli dei quotidiani
locali:
“Scivola in un canalone escursionista ferrarese”; “Alpinista
solitario muore durante una escursione” ecc. ecc.
Mi faceva sorridere tutto ciò ed era buffo, perché non abbinavo quegli
articoli alla mia persona, non potevano essere i miei necrologi. Ecco
infatti stavo rallentando, sicuramente ora mi sarei fermato.
Stavo quasi per tirare un sospiro di sollievo, quando sbattei con la parte
alta dello zaino contro una roccetta affiorante dalla neve. Questa
si comportò come un trampolino, mi fece uscire dalla neve, che ormai
marcia mi stava lentamente fermando, dandomi un nuovo impulso e facendomi
ricadere sempre di spalle e sempre sullo zaino con una violenza tale da
farmi rimbalzare e quindi riprendere velocità.
Sul volto mi scomparve il sorriso, ora non potevo immaginare come sarebbe
andata a finire.
Non vedevo dove stavo andando, non riuscivo a piantare la piccozza e
aumentavo progressivamente velocità.
I miei pensieri aumentarono d’intensità e quegli articoli che avevo
pensato un istante prima come esagerati, ora mi sembravano più reali. Pensai
a mio padre e che forse l’avrei incontrato prima di quanto avessi mai
immaginato.
Rivolto sulla schiena così come ero, vedevo il blu del cielo “era stata
fino a quel momento una giornata magnifica” e vedevo anche la cima della
montagna che avevo appena scalato.
Stava per sopraffarmi una forma di rassegnazione, non potevo far nulla,
non riuscivo a ruotarmi e non riuscivo a piantare la piccozza per
rallentare la corsa.
All’improvviso sbattei di nuovo violentemente contro un’altra roccia
che affiorava dalla neve.
Sporgeva molto di più della precedente cosicché lo zaino gli si incastrò
sotto fermandomi di colpo.
Mi girai istintivamente per evitare di continuare a scivolare di nuovo
sullo zaino.
Mi misi in ginocchio e cominciai a palparmi per vedere se avevo qualche
cosa di rotto.
Avevo la neve da tutte le parti, in testa, dentro il collo, su per i
calzoni e tra le caviglie e le calze.
Soffiavo ed ansimavo, più che dalla paura, dalla sensazione di essere
scampato ad un grave pericolo.
Ad una prima ricognizione sul corpo non avevo rotture, sanguinavo da una
mano e dall’avambraccio, ma erano rosicchiature fatte contro la crosta
gelida della neve e probabilmente contro qualche sasso affiorante.
Dovevo aver sbattuto anche la schiena, sentivo una punta di dolore, ma non
mi impediva di piegarmi.
Raccolsi gli occhiali da sole che erano piantati nella neve e li pulii
immediatamente.
Solo in quel momento ebbi il tempo di guardare come e dove mi ero fermato.
La roccia, che in modo
provvidenziale mi aveva fermato, era l’ultimo baluardo, saltato il quale
il canalone innevato proseguiva di circa duecento metri e
terminava contro la morena di massi di forme diverse e sicuramente
troppo grandi per la mia testa.
Non mi ero reso conto se avevo urlato o imprecato durante la scivolata,
certo è che ora c’era un silenzio incredibile tutto intorno. Mi
voltai e guardai in su, si vedeva chiaramente dove avevo cominciato a
scivolare e vedevo anche la prima roccetta che mi aveva fatto da
trampolino.
Avevo percorso sì e no cinquanta metri in tutto e forse non erano passati
più di dieci secondi da quando ero scivolato, ma cosa incredibile, mi era
sembrata una eternità.
Marco
Pedretti
Gennaio 2006
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