Tone e le Streghe
di Luigi Negri
Molti anni fa, quando ero ancora
bambino, abitavo in una cittadina del Veneto e, con i miei genitori, ho trascorso per diverso tempo, le vacanze estive sulle montagne del Trentino.
Affittavamo un piccolo appartamento all'ultimo piano di una vecchia casa situata ai margini del bosco, nel
villaggio di Monzon, dopo Pera, in Val di Fassa.
Era un piccolo borgo adagiato su di un piano di monte e dominato da gigantesche rocce a perpendicolo.
Si trovava lungo la valle di Vajolèt che, in questo punto, si apre.
All'interno vi scorre il torrente Soal, fiancheggiato a destra e a sinistra da
verdi pascoli alpini.
Dove i prati terminavano, sorgevano una serie di rocce brune, le Porte Neigre, passate le quali,
cominciava il Catinaccio, tutto rocce e dirupi scoscesi, che i vecchi consideravano ancora una
sorta di regno incantato.
Tante erano le storie e le leggende che circolavano attorno a quei luoghi, conferendo loro un
alone magico.
I vecchi del villaggio, raccontavano che nessuno, nei tempi antichi, avrebbe osato
avventurarsi lassù, e nemmeno nel vicino Vaèl, un altro deserto di rocce dove, dicevano, vi
abitassero le streghe e che, incontrarle, fosse un brutto rischio.
Raccontavano anche che, sul finire dell'estate, quando i pastori abbandonavano la valle di Vajolèt,
le streghe scendessero più in basso, fino al piano erboso di Ciampedìe
dove, nelle chiare notti d'autunno, ballavano e urlavano alla luce della Luna.
Tutti quei nomi e quelle storie, esercitavano su di me un grande fascino e una grande curiosità ma,
quei posti, erano rimasti per me, fino ad allora, luoghi della fantasia.
La mia giovane età ed i genitori che la sorte mi aveva riservato,
costituivano, assieme, un ostacolo insormontabile.
Mio padre e mia madre, apprezzavano della montagna, i silenzi e la pace che vi regnavano e che
propiziavano le loro interminabili letture. Le passeggiate erano limitate a qualche ritaglio di tempo
prima di pranzo o prima di sera.
Le escursioni, semplicemente non esistevano. Nella loro mente, voglio dire.
Il fatto poi, che fossero apprensivi, riduceva praticamente a zero la possibilità che potessi allontanarmi
da solo, oltre il limite posto dal loro campo visivo.
Ma, da bambini, almeno allora, ci si divertiva con poco.
Ed infatti, malgrado tutto, mi divertivo tanto. Ma non quanto avrei voluto.
Il richiamo di quelle rocce che la luce del tramonto rendeva splendide,
era irresistibile.
Quell'anno, credo fosse il ’50 o il ‘51, ero un bambino di una decina d'anni e,
per una serie di coincidenze,
rimanemmo sui monti fino alla metà di settembre.
Di regola, ai primi di settembre si faceva ritorno a casa, dove avrei rispolverato il
sussidiario, per evitare che, ritornato a scuola, facessi subito la figura
dell’asino, svelando così le mie inclinazioni.
Inutile dire che fui molto contento per quell'insperata proroga delle
vacanze.
Altri quindici giorni lontano dai libri e, soprattutto, sui monti!
Era una sorta di doppia felicità, roba da gonfiare il cuore. Il dovere battuto dal piacere. Non capitava spesso.
Il proprietario della casa della quale abitavamo l'ultimo piano, viveva con la moglie, nell'appartamento
situato sotto il nostro. Lo si poteva vedere solo la domenica poiché, gli altri
giorni, tornava molto tardi dal lavoro.
Proprio durante quell'ultima propaggine di villeggiatura, egli ebbe a concedersi qualche giorno
di libertà dai suoi impegni di lavoro. Ebbi così il modo di scambiare con lui qualche parola.
Egli era un buon signore sui cinquant'anni, dall'aspetto asciutto, con gli occhi svegli ed i baffetti
curati.
Credo si chiamasse Antonio, ma tutti lo chiamavano Tone.
Ricordo con piacere quando raccontava dei monti e delle cime che aveva visitate.
Così diceva lui: visitate. Quasi si trattasse di qualche parente caro.
Qualche volta gli avevo confidato quanto mi sarebbe piaciuto arrivare sui piani di Ciampedìe o
risalire verso le Zigolade oppure ancora, percorrere la valle di Vajolèt fino a quando le forze mi
avessero sostenuto.
Sentivo, però, che tutto questo sarebbe rimasto un sogno per molto tempo
ancora.
Ma anche i sogni, qualche volta, si realizzano.
Un giorno, ero seduto sulla panca nel cortiletto che circondava la casa.
Ero intento a leggere un giornaletto a fumetti, quando Tone si sedette al mio fianco.
Si accese una sigaretta e, con una certa noncuranza, mi chiese se poteva interessarmi passare una notte sui monti.
Così, con la stessa indifferenza con cui avrebbe potuto chiedere l’ora.
Mentre lo guardavo incredulo, giustificò la sua richiesta, dicendo che sarebbe dovuto andare a trovare
un amico su, nell’alta valle di Vajolèt e che, se fossi andato con lui, la cosa gli avrebbe fatto piacere.
”In montagna meglio sempre essere in due, non si può mai sapere… “.
Così disse. In due. Responsabilità: ecco cosa mi stava mettendo addosso.
Dentro al mio sogno, ci aveva infilato la responsabilità. Diavolo d’un Tone.
A dire il vero, non avevo mai osato neanche immaginare tanto; non credevo alle mie orecchie.
Tanto e tale fu l'entusiasmo che generò in me quella proposta che, due giorni
dopo, cedendo alle mie insistenze,Tone chiese ai miei genitori il permesso di portarmi con sè.
Evidentemente, seppe essere convincente e rassicurante. Non era un compito facile.
Infatti, dopo un iniziale, categorico diniego, i miei cedettero alla luce entusiastica che mi usciva dagli
occhi e che aumentava con il diminuire delle loro resistenze.
Ottenuto faticosamente il consenso, cominciarono allora le litanie delle raccomandazioni di ogni
genere.
Alcune in aperta contraddizione con altre: come potevo non sudare e contemporaneamente stare ben coperto?
Alla fine, tutti gli accorati consigli finirono per confluire in un'unica,
grande, doverosa e imprescindibile promessa:
quella che non mi sarei mai allontanato da Tone. Quella le condensava tutte.
Il desiderio di inoltrarmi finalmente tra quei monti, aveva avuto la meglio.
Stavo toccando il cielo con un dito.
Il giorno dopo, notando qualche titubanza nei miei cari, sintomo di qualche dubbio vagante,
Tone ed io, decidemmo che sarebbe stato opportuno non rimandare troppo il nostro proposito.
Era meglio agire in fretta, prima che i miei genitori potessero avere dei ripensamenti e riprendersi
la libertà che mi avevano concesso. Stabilimmo allora, che il giorno
successivo, sarebbe stata la giornata buona.
Saremmo partiti nella prima mattinata e, giunti nell'alta valle di Vajolèt, vi avremmo
trascorso quella notte che non avrei dimenticato negli anni a venire.
Erano da poco passate le otto quando c'incamminammo sotto lo sguardo un po' preoccupato
dei miei genitori che ci guardavano da una finestra aperta. A dire il
vero, anch'io ero un po' in ansia.
Desideravo come non mai partire e trascorrere, addirittura, una notte sui monti ma, al tempo stesso,
la cosa mi metteva addosso una certa apprensione.
Tone parve intuire quel mio stato d'animo e mi sorrise bonario, battendomi affettuosamente una mano su una
spalla. Rincuorato, salutai i miei per l'ultima volta agitando in aria il braccio, e ripresi il
cammino, senza girarmi più all'indietro.
Dopo una lunga marcia con qualche breve interruzione, il bosco cominciò a diradarsi e, ai miei occhi,
si offrì un piano fiorito di rododendri, circondato da tre parti da un gran muraglione di rocce.
E poi una rupe, alta e dritta come una torre, la sommità della quale spariva in una nuvola.
Poi, ancora, vette fosche di monti, levate verso il cielo come fossero pugni minacciosi di giganti.
Per l'eccitazione ed il succedersi di emozioni non avvertivo nè la fame,
nè la sete.
Quando passammo vicino ad una vecchia baita di legno, nella parte alta della valle di Vajolèt,
ci uscì incontro un vecchio con lo sguardo buono e gli occhi da
sognatore.
Aveva un bastone in mano sul quale si appoggiava, camminando lentamente.
Mi salutò, gentile, e poi parlò amichevolmente con Tone e, da quello che si dissero, capii che avremmo passato la notte in quella baita, dove ci saremmo
ritrovati all'imbrunire.
L’aria era chiara e intiepidita dal sole. Solenni, si ergevano le alte cime intorno alla valle di Vajolèt.
A destra, subito dietro il Soal, saliva quasi a perpendicolo la grande parete rocciosa della montagna di Larsèc.
Tone mi disse che, se me la fossi sentita, saremmo saliti proprio là. Non mi sembrava vero.
Era come andare sulla Luna. Fosse stato per me, non mi sarei nemmeno fermato per un piccolo
ma salutare spuntino, tanto era l’entusiasmo che avevo addosso.
Dopo una breve sosta, arrivammo sotto le rupi e poi entrammo in una gola stretta dove sarebbe stato
difficile camminare se, nei punti più disagevoli, non vi fossero stati alcuni gradini tanto ben fatti,
da sembrare scolpiti.
Tone, vedendomi in difficoltà e notando il mio stupore, mi guardò negli occhi
e mi disse, serio e calmo, che quei gradini servivano alle Vivàne, per andare a casa.
Queste, mi disse, erano donne dei boschi che avevano il dono di conoscere il
futuro.
Disse anche che, gli scalini, glieli avevano scolpiti i Nani dei monti, in pagamento di una scommessa fatta con le Vivàne e da essi perduta.
Per forza, pensavo io, come si fa a scommettere con uno che conosce il futuro!
Non mi stavo formando una grande opinione sui Nani dei monti.
Lo guardavo meravigliato, ma il suo modo di raccontare, rendeva naturali e quasi ovvie anche le
cose più improbabili.
Ma tant’è che cominciai a guardare quei piccoli gradini rocciosi, come si guarda
una vecchia scala di casa e, tranquillo, ripresi a salire.
In alto, in alto, subito sotto la cresta, sporgeva una roccia in forma di torrione e, dietro a quella, in una
stretta spaccatura, scorreva una vena sottile di acqua freschissima.
Affaticato e sudato com’ero, mi chinai per dissetarmi .
Sentii, alle mie spalle, la voce calma di Tone: ” Bevi poca acqua
- disse -
perché quella è la fonte dell’Oblio… se ne bevi molta, dimentichi da dove sei venuto…”
Riconoscendogli l’autorevolezza che mai mi sarei sognato di contestargli, a malincuore limitai
a due o tre avide sorsate il desiderio di placare la sete. Tempo dopo,
capii che le cose che mi diceva, erano in fondo modi per rassicurarmi, come nel caso dei gradini, o per insegnarmi ad agire con senno, come nel caso dell’acqua
che, altrimenti, avrei ingurgitato ad ampie sorsate, fino ad esplodere.
Ma quel suo modo di dire le cose, valeva ben più di un consiglio o di un diniego.
Rendeva le cose vive e disponibili, a patto che tu te ne rendessi conto.
La stessa cosa poteva essere un ostacolo o un aiuto, un rimedio o un castigo.
Dopo un impegnativo e suggestivo percorso, sorpassammo la cresta del monte ed entrammo
nell’alta valle di Larsèc. Lassù era tutto un fiore e, nell’aria tiepida e calma, era un silenzio
senza fine.
Vedevo all’intorno soltanto la maestà delle altissime vette e il cielo azzurro, e avevo
nel cuore la felicità infinita, ignorando tutto il resto.
Restai estasiato a guardare il cielo, disteso sull’erba mentre Tone, fumava finalmente in santa pace
una delle sue amate sigarette. Rimanemmo così a riposare in quel luogo incantato.
L’aria raccoglieva i colori del pomeriggio quando Tone decise che era venuto il momento di
tornare sui nostri passi, per poter rientrare alla baita prima dell’imbrunire.
Scendemmo veloci come l’acqua dei ruscelli e, arrivati alla baita, ritrovammo l’amico di Tone che
ci aspettava assieme ad un’altra persona. Era un signore che indossava un berretto verde, aveva
una bella barba bianca e ben curata e, seduto su di un grande sasso, stava bevendo a piccoli sorsi
da un enorme bicchierone.
Anch’egli doveva essere una vecchia conoscenza di Tone, perché si salutarono molto
confidenzialmente, ridendo e scambiandosi qualche battuta.
Ricordo ancora i loro nomi, Franco e Mario e, in qualsiasi parte del cielo siano in questo momento,
possa raggiungerli il mio sincero ricordo.
Il sole calò in fretta dietro i monti di Vaèl e, prima che il buio ci avvolgesse, Franco approntò un
confortevole bivacco all’aperto. Accese un bel fuoco, nel quale bruciavano rami secchi e pigne e,
sulle braci, mise ad arrostire delle belle fette di polenta che, con qualche pezzetto di formaggio,
ci diedero il conforto di cui tutti sentivamo il bisogno.
Ad essere sincero, al conforto contribuì in maniera significativa anche qualche goccio di buon vino che
Tone, con indifferenza, mi versava nel bicchiere, di tanto in tanto.
La stanchezza non tardò a farsi sentire. Sebbene affascinato da quel mondo che mi circondava,
fatto di ombre e di sagome gigantesche, sentivo gli occhi chiudersi. Le palpebre, piano piano,
diventavano sempre più pesanti.
La Luna splendeva alta nel cielo e rischiarava i monti, dei quali si potevano riconoscere creste e canaloni.
Sembrava che le stelle del cielo fossero discese a posarsi sulle cime delle montagne.
I tre amici erano seduti attorno al fuoco e chiacchieravano, fumando.
Io mi misi un po’ dietro a loro, per godere della loro presenza, pur restando in disparte.
La loro vicinanza, però, mi consentiva di afferrare qua e là, brandelli della loro conversazione.
Ad un certo punto, tra lo scoppiettio della legna sul fuoco, mi giunsero alle orecchie alcune parole.
La mia attenzione si destò d’incanto e ne venne immediatamente catturata.
Mio malgrado aprii bene le orecchie.
Accadde dopo che si era levato il vento che, infilandosi nelle gole, negli anfratti e tra gli
alberi, generava strani rumori. Franco, allora, sollevò lo sguardo e,
come stesse ascoltando il vento, disse:
“Conosco questi urli, sono il Baèl… il concerto delle streghe. Vengono dai Mugoni e scendono
verso valle.”
Dopo un breve silenzio, mentre Tone annuiva come conoscesse già quello che stavano
dicendo, fu Mario a continuare: “ Nelle notti come questa - disse -
sembrano impazzite…
urlano finchè la Luna è scomparsa, e poi scatenano il finimondo… gettano giù lingue di fuoco e si ritirano nelle loro grotte, sulle Crodes de Vaèl, dietro ai Mugoni…”
“Quelle lingue infuocate - aggiunse Franco - vanno a cadere sulle punte di roccia sopra Ciampedìe,
dove ardono, spargendo attorno un odore di bruciaticcio… Per questo quelle creste si
chiamano Zigolades… ovvero, bruciacchiate…”
Le frasi venivano pronunciate molto lentamente, e questo conferiva loro una certa solennità.
Che le loro fossero anche metafore per descrivere quelle che sarebbero state le evoluzioni
meteorologiche, me lo spiegò Tone. Ma molto tempo dopo.
Inutile dire che quelle parole mi fecero una certa impressione. Infatti, dopo qualche minuto trascorso
a ripeterle tra me e me, chiesi di poter entrare nella baita a preparami per il sonno.
Tone mi diede il permesso, aggiungendo che di lì a poco, mi avrebbero raggiunto anche loro.
Entrai così nella baita e andai a collocarmi in un angolo, vicino alla parete di fondo; sistemazione
che, in quella circostanza, parve garantirmi una qualche forma di protezione.
Mi coricai sul fieno profumato e mi avvolsi in una ruvida coperta che sapeva di fumo.
Una fessura tra i legni che costituivano quel semplice ricovero, mi permetteva di poter guardare
all’esterno.
Sbirciando da quello spiraglio, infatti, potevo vedere il bivacco e i primi alberi del bosco; più in
alto, distanti, le pareti rocciose baciate dalla Luna che spariva e riappariva tra le nubi che sopraggiungevano.
Le voci dei tre adulti, che il vento rendeva spesso indecifrabili, mi tennero compagnia mentre, nella mia
mente, apparivano figure orrende di vecchie streghe che tentavo di scacciare con tutte le mie forze ma,
purtroppo, inutilmente. Ogni rumore si fece sospetto e, alla fine, ficcai la testa sotto la coperta, mi
rannicchiai per diventare quasi invisibile e pensai ai miei genitori.
Le ultime cose che ricordo, prima che le palpebre, malgrado tutto, si
chiudessero, furono alcuni rumori e qualche confusa parola nel vento. Erano Tone e Franco che, mentre spegnevano il fuoco,
parlavano di nubi e di pioggia.
Poi, più nulla. Un rumore assordante mi svegliò nel cuore della notte. Il vento si era fatto minaccioso e i lamenti
che venivano da fuori, mettevano i brividi. All’istante, scaturirono nella mia mente le immagini delle
streghe urlanti e, mentre quelle figure si animavano nella mia
immaginazione, un bagliore accecante mi fece sprofondare nel fieno.
Poi, timidamente, risalii per cercare di guardare dalla fessura.
Pensai di vedere le lingue di fuoco che si andavano a schiantare sulle Zigolade che, a tratti,
i lampi illuminavano a giorno. La curiosità aveva la meglio sulla paura.
Non succede sempre.
All’interno della baita, solo buio e silenzio. Distinguevo a malapena le sagome dei tre adulti che
sembravano dormire tranquillamente, non dandosi alcuna pena per tutto quello che stava
succedendo là fuori.
Da un lato, ciò mi trasmetteva una certa tranquillità, ma da un altro lato, mi faceva ritenere unico testimone di quelle vicende. Ed era questo ad inquietarmi.
Tornai a guardare attraverso la fessura. Il temporale imperversava e gli alberi ed i cespugli
sbattuti dal vento, si tramutarono presto in innumerevoli orribili esseri che, agitandosi ed urlando,
circondavano la baita.
Chiusi gli occhi, deglutii, e immaginai che di lì a poco avrebbe fatto la
sua comparsa la loro condottiera, atterrando su di una vecchia scopa. Me la figuravo mentre,
con la sua voce stridula, dominava le urla ed i lamenti delle altre.
Credetti che piano, piano, circondassero la baita e, quasi non respiravo più, per non farmi scoprire.
Penso che, ad un certo punto, mi ci sprofondai talmente, che divenni fieno anch’io.
Poi, lentamente, il temporale passò e la tempesta si placò, fino a tramutarsi in una pioggia
dolce e rassicurante.
Piano, piano, il sonno riprese il sopravvento e mi riaddormentai.
La mattina, quando mi svegliai, Tone, Franco e Mario erano già usciti e li
sentivo, allegri chiacchierare all’aperto.
La luce filtrava tra i tronchi che formavano le pareti della baita.
Mi stropicciai gli occhi e li raggiunsi fuori, sbadigliando e stiracchiandomi.
L’aria era fresca e il cielo era azzurro e terso.
Il fuoco era già acceso e, sopra, vi brontolava una vecchia caffettiera.
Alle mie timide domande, tutti e tre mi confermarono di aver dormito come ghiri e di non essersi quasi accorti del temporale.
Franco mi offrì una fettina di polenta abbrustolita e una tazza di caffè nero come l’inchiostro.
Seduto su di un sasso, sorseggiavo il caffè, guardandomi attorno e soffermandomi con una certa
esitazione su quei cespugli che, la notte, si erano trasformati in orrende streghe.
Ora il posto era incantevole, e la pace vi regnava sovrana.
Non riuscivo a capacitarmi come, in un posto così bello, potessero succedere cose così brutte.
Mentre questi pensieri mi giravano per la mente,Tone mi si avvicinò e,
come se mi avesse letto nel pensiero, mi disse: “Lo vedi quant’è bello…? E come tutto può diventare brutto all’improvviso…!
Ricorda che la montagna, bisogna conoscerla e rispettarla nelle sue regole, nella sua natura
e anche nelle sue storie… altrimenti anche un posto così bello può farti vedere le streghe…
Non dimenticarlo quando andrai su e giù per i monti…”.
Ero piccolo, e non sapevo che quelle parole avrebbero trovato un loro posto preciso nella mia
mente, e che le avrei fatte mie per sempre. Ricordo che, dopo avermi parlato, stette per un attimo
in silenzio, e poi mi strizzò l’occhio.
Io, fissandolo, continuavo ad annuire con il capo, come se quel movimento spingesse ancora
più dentro alla mia mente quelle parole. Forse in quel momento, non coglievo il senso preciso
di quello che mi aveva detto, ma in cuor mio sentivo che era vero. A spiegarlo ad una testa dura
come la mia, ci avrebbero pensato le tante “visite” sulle montagne fatte negli anni a venire.
Era riuscito, con poche misurate parole, a rispondere ai miei taciti
interrogativi, senza che gli chiedessi nulla.
Quelle parole, pur nella loro semplicità, o forse proprio per questo, mi accompagnarono nelle esperienze future in montagna, e non furono mai smentite.
La paura provata la notte, si tramutò lentamente in una consapevole serenità. Come se avessi ricevuto in dono un codice per cominciare a decifrare un mondo.
Per me, bambino, fu un grande regalo.
Durante il ritorno, contento per quello che avevo vissuto, lo stavo ad ascoltare con orecchie
nuove.
E quello che mi raccontava e che mi raccontò ancora per molte volte nel corso
degli anni, la sera davanti a un bicchiere di vino o durante il giorno andando in visita a qualche
vecchia cima, era un mondo.
Il mondo della montagna, che andava compreso e visitato con il rispetto e l’attenzione per tutti i suoi aspetti
che, soli, rappresentano la chiave per poter accedere a quell’universo
affascinante.
Quel miracolo della natura che sono le montagne, hanno generato nel corso dei secoli, nel cuore dei loro
abitanti, leggi, regole e miti che non dobbiamo ignorare se vogliamo cercare di comprenderne la loro essenza e avvicinarci
al loro spirito. Questo è stato l’insegnamento che mi ha accompagnato tutte le volte che ho
infilato gli scarponi per entrare nel mondo magico del monti.
E devo dire, che è sempre stato un ottimo compagno di viaggio.
Vorrei dedicare un pensiero a Tone, il cui ricordo non mi abbandonerà mai, e mandargli
ancora un affettuosissimo saluto, sapendo per certo che gli arriverà,
ovunque egli sia.
E voglia, infine, questo semplice scritto, essere un omaggio a quel mondo, tributato da
uno scrivano appassionato e inadeguato.
Per congedarmi da voi, ringraziandovi per la vostra pazienza, vorrei dedicarvi alcuni versi
tratti dall’”Antologia di Spoon River“ di E.L.Masteers :
“Quando ero giovane avevo ali forti e instancabili.
Ma non conoscevo le montagne.
Quando fui vecchio, conobbi le montagne,
ma le ali stanche, non tennero più dietro alla visione.
Il genio è saggezza e gioventù.”
Luigi Negri
Milano, dicembre 2006
Nota
della Redazione.
Disegni
e immagini a corredo del racconto sono tratte da:
"Le
più belle leggende del Trentino" di Giovanna Borzaga. Manfrini
Editori.
"DOLOMITI
Scoperta e Conquista" di Hermann Frass. Athesia Editrice.
"DOLOMITI"
di Remo Pedrotti. Manfrini Editori.
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