La
teoria delle fragole
di Massimo Anile
Giovanni giunse alla malga sotto un cielo
che rumoreggiava inquietante.
Era trafelato, ansimante.
Si tolse lo zaino dalle spalle e con un grugnito lo appoggiò
sulla panca di larice.
Le campane del paese, seicento metri più in basso,
suonavano le sette.
L’aria era ferma, densa come quelle della pianura in estate. Non sembrava quella solita dei millecinquecentometri,
frizzante e affilata come una lama.
Si capiva benissimo che stava per scatenarsi il temporale.
Si accomodò vicino allo zaino e si tolse gli scarponi.
Sotto la panca, al loro posto, c’erano le zoccole di legno.
Non era cambiato quasi nulla da quando ci veniva
ragazzino, dopo la scuola, per aiutare suo nonno a
governare le vacche.
Ne avevano una quindicina: razza rendeva, meno latte, più fatica, ma bestie di valore.
Ci facevano burro, puina, anche formaggio ovviamente.
Però bisognava seguirle, accudirle, mungerle, farle sgravare. Recuperare anche fieno a valle, portarle
all’alpeggio nel momento giusto. Avevano ritmi incontrovertibili, che non potevi
derogare.
Ma lui era un bambino, a queste cose pensava il nonno.
Il tempo.
Il nonno se n’era andato quando lui non aveva ancora finito le medie e quel lavoro non piaceva a
nessuno dei suoi figli, papà compreso.
Avevano ceduto l’uso della malga e i diritti di pascolo ad altri.Restava comunque loro la nuda proprietà.
Così, quando l’alpeggio era andato deserto, avevano provato ad usare quella stalla come casa di monte,
ma ai suoi figli non piaceva, perché era un po’ dimessa, senza comodità, e per raggiungerla, non c’era che
il sentiero.
Lassù non c’era nulla di interessante da fare, se non raccogliere frutti di bosco e funghi, oppure
compiere lunghe camminate.
Rovistò sopra la trave.
La chiave era lì, scurita dal tempo.
C’era un buon odore di legno dentro, e fresca la temperatura. Aprì il vetro dell’unica finestrella e,
mentre scostava le piccole imposte infilando le mani tra le grate, iniziò a gocciolare.
Lasciò la porta aperta, ogni tanto un fulmine squarciava l’ombra della
stanzetta. Guardò il camino.
Aveva voglia di accendere il fuoco, ma faceva ancora troppo caldo….Magari dopo
il temporale.
Marta non c’era più. Non c’era. Dopo aver risolto le ultime incombenze, aveva salutato i figli che tornavano in città e s’era messo in testa
di salire fin lì.
Andarsene d’estate non era stata una buona idea, ma lei era fatta così. In un mondo di ritmi fermi
e prevedibilità secolarizzate, le era piaciuta proprio per questo. Fin dal primo momento, a quella festa giù alle
Màsere, aveva capito che era come una pianta selvatica in un campo di frumento.
Gli occhi vivaci, neri come antracite, che brillavano di entusiasmo e di voglia di vivere.
Sguardi inquieti, che correvano come nuvole quando soffia la tramontana.
Mani forti e sottili, con le dita ancora fresche, nonostante cinquant’anni di
lavoro.
Le mani di Marta.
Vicino al torrente c’era una riva soleggiata ed al contempo fresca.
Lì andavano per raccogliere le fragole.Ce n’era tutta una teoria, che si snodava, proprio in agosto, come un diadema vermiglio su di un
tappeto verde.
Bisognava camminare un po’ e stare attenti a battere prima di infilare le mani tra l’erbetta, perché
vicino all’acqua di monte c’è sempre la possibilità di incappare in una biscia
(*). Marta si rannicchiava e iniziava a cantare.
Diceva che se cantava le fragole venivano su più buone.
Perché sanno che sei felice – sosteneva - e sentendo che si scarificano per il bene di qualcun altro,accettano di buon grado di essere colte.
Muoveva le mani veloci e ne lasciava sempre qualcuna, come se si preoccupasse più di sfoltire che di
raccogliere.
E anche lì lei aveva una sua idea, che non tutto vada preso, che qualcosa debba essere lasciato.
Lui la guardava affascinato.
Innamorato da sempre, di quella donna meravigliosamente leggera e originale, che sapeva cogliere con
dolcezza tutte le cose belle della vita e donarsi ai suoi cari con la felicità di ogni singolo gesto.
Anche la polenta, se la serviva Marta, era più buona.
Fuori era iniziato il diluvio.
Le folate scuotevano le cime degli abeti e i tuoni rombavano così forte da far tremare anche la tavola e gli
sgabelli.
Dovette chiudere la porta, suo malgrado, perché l’odore della terra
bagnata gli piaceva da impazzire.
Salì sul soppalco e cercò nella cassapanca una vecchia coperta.
Trovò un sacchetto con dentro spighe di lavanda e gli si strinse il cuore.
Provenza.
L’autunno violetto dei campi e le canzoni spigolando…. L’ultima loro vera vacanza, prima che i medici emettessero
la malefica sentenza.
Marta forse era già malata, chissà…ma coi suoi bei capelli grigi
raccolti in una treccia da ragazzina, tenuta su con una spinetta di legno che lui stesso le aveva intagliato, si muoveva nei campi con
la disinvoltura di una contadina di Castellane.
Poi, a casa, aveva confezionato decine e decine di sacchettini ricamati che infilava dappertutto.
Una mattina ne aveva trovati due anche negli scarponcini da
trekking.
La notte trascorse serena.
Con gli scuri aperti, Giovanni venne svegliato dalla prima luce
dell’alba.
Si infilò la felpa e uscì.
Il sole disegnava profili dorati sopra le creste del Brenta, che apparivano diafane e preziose come
l’iconografia paradisiaca che aveva impresso nella sua immaginazione.
Pensò per un attimo al paradiso, al suo amore che vi si nascondeva da qualche parte.
Forse si sentiva sola, era ancora un’estranea da quelle parti. Pensò al Brenta e sentì sotto le mani la sua roccia ruvida, l’accecante candore dei ghiaioni d’estate.
L’odore dei mughi quando il sole arroventa l’aria.
E pensò alla volta che Marta gli aveva chiesto di portarla sul Basso.
Lui aveva detto di no, che era una cima difficile anche per la normale, e lei lo aveva guardata stupita, lo
aveva fissato per un po’ con quegli occhi neri, profondi, che ti si attaccavano addosso come
catrame, quando voleva dirti qualcosa.

Arrampicare per lui era solo uno svago, che divideva con qualche amico fidato.
Ma c’era chi vi aveva fatto saltar fuori un lavoro, da quel
divertimento. Alcuni erano veramente bravi.
Altri meno, ma si arrangiavano sulle solite vie e ad accompagnare turisti incerti sulle Bocchette o sul
mansueto ghiacciaio delle Lobbie.
Un giorno s’erano fermati alla sella del Fridolin, accaldati dopo lo strappo del sentiero sopra i
Casinei.
I ragazzi accalcati intorno allo zaino di Marta, sconvolti dalla sete.
Erano fermi da qualche minuto, quando era passato l’Oreste con tre olandesi
vacillanti.
Legati.
Sul sentiero.
Marta s’era messa a ridere di gusto. Oreste li aveva guardati male e aveva bofonchiato qualcosa.
Lui e Marta avevano quasi litigato. "Lascialo lavorare" gli era scappato di dire con tono prescrittivo.
Lei s’era inalberata. "Perché prendersi in giro? Se un adulto non è in grado di camminare sicuro su
un sentiero è inutile che vada tanto in su. Stia su un pascolo, in riva ad un ruscello. E’ bello anche così".
Aveva ragione.
La montagna è di tutti, ma devi fare quello che puoi fare senza rincorrere miti impossibili.
Marta aggiunse qualcosa. "Anni fa ti chiesi di portarmi sul Basso. Dicesti no. Eppure io non avevo
paura…".
Adesso questa frase gli rimbombava ossessionante nel cervello.
Perché non aveva voluto dividere con lei questa esperienza?
Non lo sapeva.
Sapeva invece che sarebbero venuti i figli e poi la casa, che sarebbero diventati vecchi passando attraverso
altre emozioni.
Ora gli sembrava di aver tolto alla sua donna una porzione grande di felicità, di averle negato un sogno.
Lei non era più tornata sull’argomento. Neppure lui.
Vigliaccamente.
Tornò nella casa.
Sul pascolo rugiadoso, al limitare del bosco, scorse un capriolo.
Rimase per un po’ ad osservarlo. Ogni tanto la bestia levava il capo allargava le orecchie, cercava
segni di pericolo.
Poi tornava tranquilla a brucare i mirtilli più dolci e rischiosi: quelli
che prendono più luce.
Una sottile brezza indicava che da lì a poco sarebbe spuntato il sole dal crinale.
Rientrò in casa e cercò nella credenza il contenitore di metallo, la secchiella dove si mettono i mirtilli.
Aveva un coperchio tutto ammaccato, rotolato chissà quante volte sui sassi o giù dal sentiero.
Non era più del tutto solidale con la coppa inferiore, forse bisognava dargli una sistemata.
Dopo.
Aveva in testa di fare un salto dove crescevano le fragoline.
Sapeva che gli avrebbe fatto male.
Ma doveva farlo.
Si avviò con passo calmo e camminò una buona mezz’ora fino a giungere in prossimità della
riva. Poi si fermò.
Se c’era un posto "loro", era questo posto. Forse, se fosse stato meno egoista, protettivo, geloso, pavido, quel posto sarebbe potuto essere la cima del
Basso.
O di un’altra bella montagna….No, belle come il Basso non ce ne sono…Mah…avrebbero fatto figli più tardi, sarebbero stati presi entrambi da quella passione, da quella
frenesia, che come una febbre ti sale per il corpo fino ai polpastrelli, che ti leva il respiro quando intuisci una linea di
salita, una possibile sosta, sugli appicchi della parete.
E lui, lui stesso cosa sarebbe divenuto?
Se la passione la dividi con un amico, se hai nella famiglia una sorta di punto di ancoraggio alla realtà, che ti
impedisce giustamente di prendere il volo come una mongolfiera sospinta dal vento dell’avventura…….Ma quanto sarebbe stato bello, più bello, meravigliosamente più bello dividere con la persona che ami
queste emozioni?
Raccolse le forze e andò avanti.
Era tutto come si era aspettato.
Una tappeto verde tempestato di puntini vermigli.
E questo sole delicato che addolciva i contorni.
Forse era questo il paradiso.
O forse era dietro le creste dorate del Brenta?
Si chinò a terra e accarezzò le pianticelle.
Erano tenere, così piene di vita e colore e freschezza.
Aprì il contenitore metallico.
Dentro, arrotolato, c’era una foglietto. Fissato da un nastrino color malva.
"Non raccoglierle tutte, lasciane vivere qualcuna, anche se magari è la più grande e matura.
E ricordati di cantare, che vengono su più buone."
(*) L’aspide, nel linguaggio comune trentino, viene spesso chiamata biscia
Massimo Anile
Rozzano (Milano), 27 giugno 2002
|