I racconti di Rocca Pendice
di Gabriele Villa
Ho cominciato ad
arrampicare nel 1975, quando ancora non esistevano le fotocopiatrici e
viene da chiedersi cosa possano c’entrare le fotocopiatrici con
l’arrampicata ...
Eppure, se ci si pensa, la prima cosa che si fa, al giorno d’oggi,
quando c’interessa una via da andare a scalare, è proprio la fotocopia
della relazione da conservare e da portarci appresso.
Difficilmente ne facciamo a meno: di conseguenza se ne deduce che le
fotocopiatrici sono diventate strumenti dai quali non si può prescindere
per arrampicare. Bizzarrie della vita!
Nel luglio di quell’anno 1975 mi ero iscritto al Cai della mia città,
poi, in agosto, avevo cominciato ad arrampicare con amici agordini e, tra
settembre e ottobre, sull’onda dell’entusiasmo per quelle salite
effettuate, avevo partecipato ad alcune uscite di arrampicata organizzate
dalla Sezione.
Non era un corso come quelli organizzati attualmente; c’erano però
alcuni soci volonterosi, sufficientemente esperti di nodi e manovre di
corda, che si prestavano a fare sicurezza a chi voleva salire, dando
consigli sul dove mettere mani e piedi, il tutto in maniera molto
informale.
Il luogo di esercitazione prescelto lo chiamavano “le Numerate”, cioè
una palestra di roccia con alcuni brevi percorsi sulla trachite di Rocca
Pendice, in quel di Teolo, tracciate nel lontano 1943.
In effetti, la caratteristica che maggiormente risaltava agli occhi
dell’arrampicatore arrivato lì per la prima volta, erano proprio i
grandi numeri scritti in rosso alla base di ogni percorso. Nella
mia ignoranza alpinistica, non avrei mai immaginato che vi fosse un luogo
dove poter arrampicare a poco più di un’ora d’auto dalla mia città.
Mi ero assai divertito in quelle uscite tanto che, contravvenendo
clamorosamente ai miei fermi propositi estivi, avevo addirittura iniziato
a fare il capocordata su alcuni percorsi, scelti fra quelli più facili
che in precedenza avevo salito assicurato dall’alto. Non era stato nulla
di eclatante, tuttavia sufficiente per fare esplodere in me la passione
per l’arrampicata. Come dicono a Ferrara “a m’iéra gasà“. (Mi ero
gasato).
Dopo quell’esperienza cominciai a frequentare la sede della Sezione,
durante i mesi invernali, divenendo un abitudinario della biblioteca. Leggendo
voracemente i libri che trattavano di alpinismo, scoprii un volumetto
dedicato proprio a Rocca Pendice. Sfogliandolo, potei scoprire che, oltre
alle Numerate, sull’altro versante del monte, c’era pure una parete alta oltre
cento metri, la Est, che presentava delle vie di arrampicata lunghe fino a
centosessanta metri.
Chi l’avrebbe mai immaginato!
Nel volumetto si raccontava anche la storia alpinistica della parete,
dei primi salitori di ogni percorso e dei ripetitori illustri. Lo lessi
avidamente.
Che storie c’erano scritte e con quanto ingenuo entusiasmo le leggevo!
Allora c’era ancora la possibilità di stupirsi, quella capacità che i
figli della società tecnologica e di internet sembrano avere perso. Avrei
desiderato comprare quel libretto, ma in libreria non si trovava più e le
fotocopiatrici, come detto all’inizio, ancora non erano entrate
nell’uso comune. Così decisi di chiederlo in prestito alla biblioteca
e, a casa, con calma, metodo e pazienza, passai varie sere a trascriverlo
a mano, storia alpinistica compresa.
Mentre trascrivevo diligentemente la
storia dal libro, m’immaginavo il poeta Antonio Fogazzaro parlare con
Gino Carugati, primo salitore della parete est del Baffelan alle Piccole
Dolomiti vicentine, per spingerlo a salire quella parete del Monte
Pendice, ai Colli Euganei, che ancora risultava inaccessa.
Era certo un’impresa minore, ma non per questo così facile come poteva
sembrare.
Carugati, incuriosito, era andato prontamente a vederla ed aveva salito il
camino assieme alla moglie Maria: era il 7 marzo 1909. La
domenica successiva erano tornati con
Antonio Berti e Mariano Rossi giunti da Padova con le carrozzelle e
una brigata di amici; attaccarono alle due del pomeriggio e, superato il
camino iniziale e un tratto liscio, in seguito denominato “le pance”,
proseguirono nonostante la pioggia che aveva iniziato a cadere, fino a
rimanere bloccati a circa metà parete, sorpresi dal buio.
Carugati era con Berti sotto ad uno strapiombo e, un tiro sotto, Rossi con
Maria Carugati.
Noi, figli di oramai due generazioni successive a quella di Carugati, ce
la ridevamo quando andavamo a ripeterne la via, scherzando sul fatto che
la Maria fosse rimasta in bivacco con Rossi, lontano dagli occhi del
marito Gino. Sapevamo bene di non avere alcun motivo valido per pensare
una simile malignità, tuttavia ugualmente non resistevamo, ogni volta che
si passava per la cengia Carugati, dal fare l’immancabile irriverente
battuta.
La storia narrava di tanti alpinisti famosi che su quelle pareti avevano
aperto le vie più impegnative: Morten, Rinaldi, Bianchini, Barbiero,
Sandi, Scalco, Bettella, Grazian, Soldà; tutti nomi a me assolutamente
sconosciuti, se si fa eccezione per Soldà di cui avevo sentito parlare a
proposito della spedizione italiana al K2.
Fra tutti questi fortissimi era Antonio Bettella l’alpinista che più di
altri era entrato nel ricordo popolare, se non nella leggenda. Mi
aveva colpito una frase che raccontava del periodo nel quale si era aperta
la gara fra i migliori alpinisti padovani per tracciare la via diretta in
centro parete. Con la classica aulica terminologia che si era imposta nel
ventennio fascista e che tanto bene si adattava alle gesta eroiche
dell’alpinismo, si raccontava di Bettella che un giorno “solo, saggia
la parete”.
Nei miei primi anni di frequentazione avevo spesso sentito parlare di
Bettella.
Era descritto come un uomo alto e ben piantato, con grande forza fisica,
cioè pienamente rispondente al canone del “forte alpinista” allora in
auge. La via aperta da lui e Scalco
sulla parete sud dell’Antelao, veniva tenuta in grande considerazione e
portata ad esempio di ardimento e capacità alpinistiche.
Eppure, nonostante tutto, Bettella era morto proprio lì, ai piedi di
quella parete est che era la sua palestra d’allenamento, precipitando a
causa della rottura della corda a seguito di un volo.
E c’era chi diceva di avere sentito raccontare che, nonostante la caduta
di parecchi metri, Bettella non fosse morto all’istante e che lo
avessero trovato rantolante divenuto alto poco più di un metro, lui così
atletico ed imponente, con le ossa femorali che fuoriuscivano dalle
spalle.
Quanto ci fosse di vero in quel racconto dai tratti raccapriccianti non lo
saprei dire, ma quello era ciò che avevo sentito raccontare circa la
morte del grande Antonio Bettella.
Quando un giorno, sotto la via Nord, a sinistra delle Numerate, scorsi
l’occhiello di un vecchio chiodo emergere dalla terra e, dissotterratolo
e pulitolo, vi lessi una B stampigliata sulla testa non potei non pensare
a Bettella e immaginarmelo mentre lo batteva con il martello
sull’incudine, subito dopo averlo estratto dal braciere.
Sapevo bene che
avrebbe potuto essere di chiunque altro avesse un nome che cominciava con
la B, magari Bianchini, Barbiero o altri meno conosciuti, ma, portandomi a
casa il chiodo, avevo voluto pensare che fosse appartenuto proprio al
forte Antonio Bettella. E ancora lo
conservo gelosamente.
Sul libretto, si parlava di Gino Soldà, pure lui venuto ad arrampicare
sulla parete est del Pendice. Aveva lasciato la sua firma aprendo una
variante d’attacco alla via diretta di Bettella, Morten e Bianchini.
Che
emozione quando riuscii a salirla da capocordata per la prima volta nella
primavera successiva e che bei movimenti, eleganti e tecnici, in quei
pochi metri d’arrampicata; vi si poteva riconoscere la mano del Maestro.
L’emozione ancora più grande la provai quando, nello stesso anno, mi
recai con gli arrampicatori della mia Sezione in quel di Campogrosso e
potei conoscerlo di persona. Venni a sapere che il grande Gino era buon
amico del nostro Presidente e che a Ferrara si faceva riferimento a lui
per organizzare le esercitazioni di arrampicata che stavano divenendo veri
e propri corsi di roccia. Fu un piacere vederlo arrampicare, sia sulle Due
Sorelle, che sul Baffelan, che alla Torre Piccola di Falzarego, dove
svolgemmo l’uscita di fine corso. Era oramai settantenne, ma non lo si
sarebbe detto guardandolo muoversi sulla roccia con l’agilità innata
che lo aveva contraddistinto come alpinista.
Me lo ricordo con i capelli fluenti, fra il bianco e il grigio, e un
sorriso sereno e rasserenante che dava l’idea di una persona realizzata.
Averlo conosciuto lo considero un privilegio.
Oltre a Soldà, anche un altro grande era venuto al Pendice su espresso
invito del Gruppo Rocciatori del Cai di Padova: Emilio Comici. Gli annali
ne ricordano la data: 28 aprile 1940.
Pure lui aveva lasciato la sua firma sulla parete, salendo quel famoso
“attacco Comici” che tutti i “forti”, negli anni seguenti, si
compiacevano di salire. Aveva salito in cordata con Morten e Bianchini il
tratto iniziale della via “degli strapiombi”, problema allora insoluto
della parete.
Avevano cercato di proseguire oltre, alla fine però avevano desistito, ma
l’impresa lo aveva entusiasmato, tanto da promettere agli amici padovani
che sarebbe tornato per ritentare.
La morte però lo attendeva proprio quell’anno sui roccioni di
Vallelunga in Val Gardena, il 19 ottobre 1940.
Oggi, alla base delle rocce al centro della parete, rimane la lapide che
lo ricorda e con la quale i rocciatori padovani avevano voluto ricordare
il forte alpinista triestino, intitolandogli la Palestra dei Colli
Euganei.
Io che avevo diligentemente ricopiato tutta la storia trascrivendola sul
quaderno, quando riuscivo a salire qualcuna di quelle “tracce”
lasciate dai Maestri dell’alpinismo, ne ero oltremodo soddisfatto e
inorgoglito. Da quell’agosto nel quale avevo iniziato ad arrampicare,
avevo passato metà autunno e tutto l’inverno, a salire le Numerate con
Alberto, un amico di Padova conosciuto sul posto: insieme ne avevamo
salito ogni angolo, ogni parete, ogni fessura.
Ci eravamo trovati tutti i fine settimana, senza mai darci nemmeno un
appuntamento.
Ognuno di noi due sapeva che avrebbe trovato l’altro, indipendentemente
dal tempo meteorologico e anche sul più crudo dell’inverno, quando
dentro ai caratteristici appigli a forma di acquasantiera della trachite,
si poteva trovare il ghiaccio.
Per noi le Numerate, in quel periodo, erano “la montagna”.
Per me avere la possibilità di arrampicare a poco più di un’ora
d’auto da casa era un sogno.
Nelle giornate migliori si andava anche sulla parete Est, utilizzando gli
schizzi che avevo ricalcato dal libretto.
Si saliva la Carugati, lo
spigolo Barbiero, lo Spigolone e poi, durante la settimana, seguivano dosi
massicce di flessioni sulle braccia, piegamenti sulle gambe, esercizi con
il bilanciere, chilometri di corsa.
Alberto aveva un suo personale metodo di allenamento, molto artigianale,
ma efficace.
Usava la camera d’aria di una ruota di bicicletta che estendeva tirando
con le braccia, come a volerla allungare.
Un sabato Alberto arrivò alle
Numerate con un lungo livido bluastro che gli segnava il volto e alla mia
domanda preoccupata su cosa gli fosse successo rispose semplicemente:
“me se gà roto la camera d’aria intanto che tiravo”.
Con il passare del tempo, il migliorare dell’allenamento e della
confidenza con la roccia, aumentavano anche le “ambizioni” e si
cominciò a guardare anche alle vie o a quelle porzioni di parete che fino
ad allora si erano trascurate.
Fra queste vi era la fessura Rinaldi, detta da tutti la “Rinaldina”
con tono vezzeggiativo che però non poteva sminuirne insidie e difficoltà.
La fessura parte dal sentiero che sale in breve alla cengia dove si
andava, e si va tuttora, per fare le prove di trattenuta con il paranco e
il copertone, proseguendo poi verso l’alto per una cinquantina di metri.
Il primo chiodo si trovava ad alcuni
metri da terra, ma, in quel periodo l’ipotesi di salire sopra la cengia,
gettando una corda per progredire assicurati in “moulinette”, non era
nemmeno presa in considerazione: si saliva in cordata rigorosamente
assicurati dal basso.
Era il 30 gennaio 1976, quando ci provai, accompagnato da un giovanissimo
amico.
Con l’aiuto di un chiodo da me piantato, avevo superato il primo
strapiombo utilizzando una staffa, proseguendo poi in libera fino ad
avvicinarmi al chiodo della via.
Quando mi resi conto di essermi alzato da terra alcuni metri e della
necessità di posizionare un’assicurazione, capii, contestualmente, di
non essere in grado di farlo.
La fessura strapiombava e io non sarei riuscito a staccare una mano per
prendere un chiodo, piantarvelo e proteggermi; del resto, il materiale che
avevo sistemato abbastanza disordinatamente in un cordino a tracolla mi
era finito dietro la spalla, rendendo l’operazione ancora più
complessa.
Capito di non avere alcun’altra possibilità se non quella di scendere,
raccolsi le residue energie ed iniziai l’arrampicata a ritroso con le
mani ad incastro nella fessura, mentre il mio compagno recuperava la
corda. Arrivato all’altezza della staffa non riuscii ad inserire lo
scarpone nel gradino e, dopo un paio di tentativi infruttuosi, sentendomi
mancare le forze, decisi che la soluzione migliore sarebbe stata quella di
lasciarmi cadere, fidando nel chiodo che avevo piantato.
Così mollai le mani, iniziando la caduta, ma non sentii nemmeno lo
strappo del chiodo che avrebbe dovuto trattenermi e il mio volo proseguì;
dopo due metri di caduta, battei i piedi sul massone dal quale ero
partito, che fece da trampolino, tanto da farmi compiere un “salto
mortale carpiato”, trovandomi steso sul sentiero sassoso, tre metri
sotto e faccia a valle. Fu un
miracolo se non mi ruppi nulla, ma la forte contusione ai muscoli della
schiena e delle spalle mi procurò una settimana d’immobilità e di
tormenti. Qualche tempo dopo,
parlando con un arrampicatore padovano, venni a sapere che la Rinaldina
risultava salita in libera soltanto da uno scalatore: Renato Casarotto.
La notizia non mi consolò affatto: se anche potevo dire di avere avuto
l’ardire del già allora famoso scalatore vicentino, sicuramente non ne
avevo avuto nè la consapevolezza, nè la preparazione.
Quella, fu una lezione molto importante per il prosieguo della mia
carriera alpinistica: mi fece certamente perdere un pò della mia
spavalderia, ma ne guadagnai in saggezza e capacità di valutazione.
Nei tempi più recenti era venuto alla palestra anche Reinhold Messner
che, proprio all’inizio di quegli anni ’70, stava imponendosi come
alpinista emergente. Era allora studente d’ingegneria all’Università
di Padova e, il solito bene informato, raccontava di come un suo amico
arrampicatore, compagno di corso dell’altoatesino, l’avesse portato al
Sasso delle Grotte per fargli provare la famosa traversata, banco di prova
e d’allenamento degli arrampicatori più forti.
Oggi quella traversata è considerata semplicemente un boulder, ma allora
era tutto diverso.
Comunque Reinhold non si tirò indietro e completò la traversata fino in
fondo, poi, al ritorno, quando capì di non averne più, non si lasciò
cadere a terra, ma uscì verso l’alto scendendo, mani in tasca, per il
sentiero che passa sopra al Sasso delle Grotte, avendo messo in salvo il
suo prestigio alpinistico.
Anche qualcuno di noi riusciva ad arrivare in fondo alla traversata, ma ciò
succedeva dopo varie sedute di allenamento e dopo avere memorizzato gli
appigli e i movimenti.
Proprio per questo, nessuno si era mai sognato di fare irriverenti
paragoni con il forte Messner ...
In quei primi anni di attività arrampicatoria avevo a volte la sensazione
di vivere ai confini con la leggenda, perchè mentre oggi la maggior parte
degli arrampicatori fa pratica sportiva e si interessa solamente dei
numeri che contraddistinguono le difficoltà della parete che affrontano,
allora si pensava ai salitori delle vie che si andavano a percorrere e se
ne conosceva la storia.
Ricordo, ad esempio, di avere sentito parlare di Toni Gianese, un
alpinista padovano divenuto cieco a causa di una malattia, il quale, dopo
i primi momenti di comprensibile sconforto aveva saputo ritrovare la
strada della montagna, riprendendo addirittura ad arrampicare con
l’aiuto di alcuni amici. Sembrava impossibile, ascoltando quella storia,
che ciò fosse possibile, eppure era vero e Gianese era divenuto una
specie di personaggio leggendario.
Un giorno mentre percorrevo la cresta Nord di Rocca Pendice, giunto oramai
in vista della cima, arrivai a fare punto di recupero su di uno spuntone,
poco discosto da una cordata ferma a sua volta in sosta.
Mentre recuperavo
il mio compagno guardavo gli arrampicatori seduti lì poco distante.
Uno aveva estratto dallo zaino un barattolo di birra e, apertolo, lo aveva
porto al suo compagno che se ne stava seduto guardando un punto indefinito
avanti a sè.
Notai questi prendere il barattolo e poi, in modo per me
inaspettato, appoggiare un dito sul bordo superiore della lattina e farlo
scorrere sul perimetro del barattolo fino ad arrivare in corrispondenza
con l’apertura.
Individuatala, girò il barattolo in modo da avere il foro nella parte
bassa e lo avvicinò alla bocca, bevendo.
Devo essere sincero: non capii
subito. Solo poco dopo, quando la cordata ripartì mi accorsi che il terzo
stava dietro al secondo di cordata e gli suggeriva ad alta voce dove
appoggiare i piedi e come muoversi.
Finalmente mi resi conto che quel Toni Gianese, di cui avevo tanto sentito
parlare, era lì davanti a me senza che io nemmeno mi fossi reso conto
della sua cecità. Di quel fugace incontro ricordo il sorriso sereno di
Toni e il grande affetto che traspariva dal comportamento dei suoi amici.
Di lì a poco tempo lessi che Gianese aveva trovato la morte cadendo dalla
terrazza di un rifugio nella zona del Monte Bianco, che aveva da poco
raggiunto con i soliti amici.
Oggi, la palestra delle Numerate gli è stata dedicata e alla base delle
rocce una grande targa ne ricorda la memoria ai disattenti frequentatori.
Ripensare a quei primi anni di arrampicate e di avventure mi procura
una punta di nostalgia e molta amarezza.
Non tanto per il tempo che è trascorso, ma per lo spirito che è andato
perduto.
Ripenso a quel libretto, ricopiato integralmente a mano, che mi aveva
introdotto in un mondo fino ad allora sconosciuto e consentito di scoprire
personaggi leggendari.
Era diventato il mio vangelo e le Numerate il biberon alpinistico al quale
avevo avidamente succhiato per corroborare la mia gracile esperienza; per
dirla alla Domenico Rudatis “lì avevo forgiato il carattere per
affrontare più duri cimenti dolomitici”. Vederle
oggi, dopo trent’anni, piene di spit luccicanti, chiodi resinati e
catene cromate, frequentate da gente in canottiera e pantacollant, fra
squilli di telefonini e sbuffi di magnesite, mi sembra francamente una
profanazione.
Gabriele Villa
Ferrara, 20 aprile 2005
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