Le onde del destino (Gork)
di Massimo Anile
Le creste erano corone nitide nel cielo freddo del mattino, lassù al
Gork.
Angelo accese un'altra sigaretta ed aspirò a pieni polmoni.
Pochi metri più in là, seduto sul tronco di un vecchio larice
scorticato, suo figlio stava preparando i terminali della lenza.
Nylon a scalare leggero, sottile e trasparente come vetro.
Per porgere la secca nel migliore dei modi.
Osservava compiaciuto il compiersi di quel rito.
Il ragazzo aveva appreso con dedizione totale ogni insegnamento paterno,
tanto che lui poteva andarne fiero, di quel figlio discepolo.
L’aria stava scaldandosi, il primo sole esaltava l’odore pungente delle
ortiche e le nebbie svaporavano lungo i fianchi della montagna: una
giornata promettente li attendeva.
Angelo si mise a monte ed iniziò a frustare sopra le prime buche del
torrente.
Erano ancora soli su quel tratto selvaggio del Bedù di San Valentino.
Il cielo, di un azzurro quasi metallico, sbucava tra le peccete
fumiganti.
Le condizioni erano ideali, l’estate aveva schiuso tutte le ninfe, e gli
insetti sciamavano senza problemi sin dalle prime luci.
Un bollata alla fine della lama e la Brown Edge si posò con precisione
millimetrica ad un palmo dal sasso.
Dopo un breve resistenza, la trota finì la sua battaglia inutile ad un
palmo dalla riva: un discreto esemplare dalla livrea scura, proprio come
il fondale del torrente.
La mano umida di Angelo la afferrò e in un attimo la trota riacquistò la
sua speranza, scomparendo nella corrente
Marco si avvicinò al padre mentre questi stava annotando la cattura
sulla scheda.
- Non sbagli un colpo - gli disse soppesando il pesce.
- Sono ancora io il maestro, o no? Ho il dovere morale di dare il buon
esempio.
- Ed io quello di imparare e superare il maestro, come fece Giotto con
Cimabue!
Così dicendo il ragazzo si voltò ed iniziò a camminare verso monte, in
direzione di una pozza profonda posta al di sotto di un vistoso salto.
- Te ne darò un compiuto esempio tra non molto, caro papà - aggiunse
subito dopo, senza peraltro avere la certezza di essere udito dal
genitore, in quanto il fragore del torrente in quel punto era
assordante.
Marco era compiaciuto dalla rapida cattura del padre.
Era convinto che una battuta di pesca si rivelasse all'inizio, nelle sue
potenzialità.
Questa sua abitudine a considerare il volgere degli eventi dalla prima
impressione, irritava invece Angelo, soprattutto quando sul taccuino,
dopo un paio d'ore di pesca, non era annotata nessuna cattura.
Marco infatti, in quelle circostanze, si trascinava svogliato da una
buca all'altra del torrente, depositando la sua coda di topo in acqua
senza molta convinzione.
Questo fatalismo rinunciatario, secondo l’uomo era fastidioso e
controproducente: una resa prematura di fronte alle iniziali avversità.
Eppure quell'atteggiamento tanto criticato, aveva spesso dato i suoi
frutti, costringendoli a cercare nuovi tratti di torrente più proficui
che, di fatto, avevano contribuito a rinnovare ed estendere il loro
territorio di pesca.
Marco, del resto, detestava la testardaggine del genitore, quel suo
accanimento nell'insistere pervicacemente nella zona d'azione prescelta.
"Qui le trote ci sono", diceva Angelo a supporto della sua teoria, e in
quella frase c'era una filosofia esistenziale fatta di sacrificio e
tenacia, il cui sfondo virtuale era costituito da una vita costruita
mattone dopo mattone, di una solidità, ma anche di una staticità,
davvero impressionanti.
Eppure il ragazzo doveva riconoscere al padre che la determinazione e la
pazienza, che costituivano le strutture portanti della sua abilità
alieutica, spesso davano splendidi risultati in termini di cattura.
Quando ci si era cimentato, ne aveva tratto insegnamento e
soddisfazione... anche se non la felicità legata all'imprevisto,
all'intuizione.
Giunto alla pozza spumeggiante, Marco volteggiò la coda per aria, stando
ben nascosto dietro ad una roccia.
Gli parve di vedere un’ombra gigantesca, ma credette ad un riflesso
maligno.
Non era un tratto di torrente dove si celavano grandi esemplari. Troppo
in alto, troppo variabile come portata idrica e soprattutto troppo
frequentato.
Ma quella giornata era una giornata particolare.
Dietro al gorgo formato da una grossa pietra di tonalite, la corrente si
rilassava per un breve tratto profondo e frizzante, ma docilmente
galleggiabile.
Marco lasciò cadere la secca proprio lì, in quel fazzoletto di
tranquillità trasparente.
L’ombra ricomparve e richiuse le sue robuste fauci con uno schiocco
netto.
Un istante prima che la trota si accorgesse dell’inganno, la canna era
già un arco vibrante.
Quando Angelo alzò gli occhi verso il figlio scorse la canna flessa.
A giudicare dalla posizione prudente assunta dal ragazzo, quasi
inginocchiato sulla rena umida, doveva trattarsi di un bell'esemplare.
Come solitamente accade in questi frangenti, appoggiò il proprio
attrezzo sul terreno e s'incamminò verso il figlio.
Si trattava certamente di una vecchia fario che lottava disperatamente
all'altro capo del filo.
La grossa trota, sopravvissuta a chissà quali avventure, s'era rifugiata
in una cavità profonda sotto una rientranza delle rocce, cercando di
portare la pelle in salvo.
Angelo si fece da parte, anche se la tentazione di coprire Marco di
consigli era grande.
Sapeva che, in quei delicati momenti, bisogna solo ascoltare se stessi e
lasciarsi guidare dal proprio istinto senza essere distratti.
Marco cercava di assecondare le puntate verso il fondo della trota
guidando il pesce verso il centro della corrente, sperando così di
stancarlo e domarne la resistenza.
Ma qualsiasi tentativo di staccarla dal fondo era vano.
Il suo timore che, a lungo andare, lo sfregamento della lenza contro le
pareti corrugate della pozza ne avrebbe prodotto la lacerazione era più
che fondato...
L'azione della trota era così sciente da impressionare il pescatore.
Dopo qualche minuto di attesa Marco si decise a forzare e con una certa
energia iniziò l'azione di recupero.
Per un attimo egli credette di riuscire a far sua la cattura, ovvero
quando il pesce emerse dalla tana profonda e si mostrò in tutta la sua
fiera grandezza.
Ma proprio mentre pregustava la soddisfazione della vittoria, l'animale,
con un guizzo repentino, cambiò tattica e si precipitò a capofitto giù
per la corrente spezzando la lenza.
La grossa fario aveva rinunciato alla sua dimora, alla pozza profonda
dove presumibilmente aveva trascorso l'intera sua esistenza e che non
avrebbe mai più potuto raggiungere, per continuare a vivere.
Marco si ritrovò con la canna in mano, tristemente inanimata, dalla
quale pendeva il capo di filo troncato. Angelo gli si fece vicino.
- Peccato... - disse l'uomo appoggiando la mano sulla spalla del ragazzo
- ma non potevi fare altrimenti.
- Mi ha fregato. Ha vinto lei. Sono stato un fesso a trascinarla in
corrente!
- Quella non è mica diventata così grossa per caso. Se tu non l'avessi
forzata non sarebbe cambiato molto, perché prima o poi sarebbe riuscita
a rompere il nylon lo stesso...
Marco si girò verso valle facendo un grottesco saluto con la mano.
Poi aprì la giberna estrasse una nuova mosca e ricominciò a frustare
l’aria.
Alla mezza avevano già arenato quattro belle prede a testa, tutte più o
meno della stessa taglia, ne avevano tenute un paio, perché ogni tanto è
bello portare a casa qualcosa di fresco.
La giornata si era fatta un po' velata, senza vento: nonostante fossero
abbastanza in quota, l'estate si faceva sentire.
Così si alzarono dall'alveo e guadagnarono il sentiero di valle
dirigendosi verso la trattoria davanti alla quale avevano posteggiato
l’auto.
Si sedettero a tavola ed ordinarono subito. Avevano entrambi molto
appetito. Di fianco a loro s'era sistemata un'allegra comitiva composta
da tre giovani famiglie con quattro o cinque vispi ragazzini.
Angelo s'era sposato abbastanza presto ed i figli erano giunti in
fretta. Ora aveva una sessantina d'anni ed una discreta voglia d'essere
nuovamente alle prese coi cuccioli.
Dai due figli si aspettava prima o poi un nipote, magari per insegnarli
a riconoscere le piante e gli animali del bosco e poi portare anche lui,
quando si fosse fatto più grande, a pescare nei torrenti del Trentino.
Stefano, il primogenito, viveva però molto lontano e, da testa calda
qual'era, non aveva ancora cementato alcun legame fisso.
Marco invece si era sposato tre anni prima, ma lui e Loretta non avevano
nessuna intenzione, per il momento, di fare bambini. I tempi erano
cambiati: sua nuora svolgeva un lavoro di una certa responsabilità, che
spesso la portava in giro per il mondo.
Ciò, se da un lato favoriva la possibilità di organizzare frequenti
battute di pesca col figlio, procrastinava la compiutezza dell'affresco
famigliare al quale Angelo idealmente si richiamava, quell'idea di
costruzione patriarcale dei legami nella quale un ruolo fondamentale era
giocato dai nipoti. In tale senso Angelo s'era già attrezzato per il
futuro. E non solo mentalmente.
Da qualche mese aveva provveduto ad estendere la casetta di Giustino,
sacrificando un parte del giardino per creare un'ulteriore camera nella
quale immaginava già i chiassosi pargoletti.
Linda, sua moglie, avrebbe cucinato per l'intera stirpe pentoloni di
risotto e sarebbe tornata l'allegria dei bei tempi, quando c'era
l'energia e la voglia di litigare e confrontarsi su tutto.
Erano proprio volati quegli anni: Dio sa quanta nostalgia provava per
quei periodi di confusa pienezza. E quanta rabbia per non averli saputi
comprendere al momento, sfruttare fino in fondo, dedicando loro tutto il
tempo necessario. Maledetti quei giorni sacrificati sull'altare degli
impegni professionali, in omaggio alla dedizione ed al senso di
responsabilità.
Erano immagini che si rincorrevano nella sua memoria e che spesso si
sforzava di esorcizzare.
Il pensiero che il successo professionale, aumentando gli introiti
economici, avesse comunque favorito il benessere della famiglia, non
cancellava l'ombra di avere sottratto troppo tempo ed attenzioni ai suoi
cari.
Quante sere era giunto a casa tardi, neanche in tempo per cenare coi
figli e scambiare quattro chiacchiere su come fosse andata la giornata?
Quanti i discorsi intavolati di fretta, senza possibilità di essere
sviluppati, ripresi, approfonditi?
E quante le scelte famigliari dalle quali s'era chiamato fuori?
Si era sempre interessato al futuro dei figli, alle loro decisioni, ai
loro problemi, ma lo aveva fatto spesso per interposta persona,
discutendo con sua moglie di ciò che le avevano raccontato i ragazzi.
Era anche una necessità fisiologica, la sua, quella di estraniarsi dopo
una giornata intensa, di ricaricare le batterie, come amava dire in
casa.
In fondo non era poi così forte come lasciava credere in giro, aveva
anche lui bisogno di dormire sette ore per notte, di mangiare e lavarsi,
di svagarsi con la mente....
E per quello c'era la pesca, una passione che non aveva mai ripudiato, a
differenza della bicicletta, per la quale non bastava la sola
esperienza, ma ci voleva soprattutto allenamento.
Quando furono abbastanza grandi, cominciò a portarsi dietro anche i
figlioli. Con Stefano però durò poco: era troppo preso dalle sottane
delle amichette per sprecare il suo tempo su un torrente.
Marco invece ci provò gusto e fondò quel sodalizio col padre, fatto
soprattutto di tacite intese.
Forse era proprio quel particolare tipo di pesca a rendere problematico
il dialogo: il fragore del torrente, gli avvicinamenti spesso faticosi,
i suoni e gli aromi della natura da assaporare in silenzio: fatto sta
che durante le loro uscite parlavano poco.
Angelo continuava a scoprire i problemi dei figli, quindi anche quelli
di Marco, dalla bocca di Linda, che pazientemente gliene parlava alla
sera.
- Papà, passami il pane, per cortesia.
Angelo porse il segalino al ragazzo.
- Sei ancora alterato, vero?
- Mah, non so... fatto sta che mi è scappata. A te non sarebbe successo.
- Sei pazzo? Lo sai quante trote ho perso così nella mia vita?
- Lo dici per consolarmi, ma credimi, non ne ho proprio bisogno. Tutto
sommato è anche bello che un pesce possa sfuggire: fa parte delle regole
del gioco. In fondo mi piace pensare che è ancora là dentro, che non si
è fatta fottere...
- Sono d'accordo! Pensa invece se adesso entrasse uno di quegli zotici
con tanto di cappellaccio in testa e scatola di lombrichi appesa in vita
a dire "ho preso una fario mostruosa".
- Allora sì che mi girerebbero...
- E' una vecchia storia, lo so: o a te o a nessun altro.
- Proprio come con le donne.
- Già..
Un ragazzino di circa sei anni, rincorso da una bimbetta tutta ricci,
andò ad urtare Angelo. Immediatamente si alzò il padre, un tizio
dinoccolato alto quasi due metri, che strattonando il figlioletto in
modo energico si scusò a più riprese.
- Non fa nulla - disse Angelo - sono bambini....
Poi si voltò verso il figlio.
Marco a sua volta lo stava osservando.
Rimasero così per un attimo, a fissarsi negli occhi.
Un attimo lunghissimo durante il quale avevano congelato il tempo, manco
fosse una trota da portare in tavola a Natale.
Marco voleva dire qualcosa a suo padre?
Angelo si aspettava qualche battuta dal ragazzo?
Quel dialogo "in sospeso" era lo specchio di quanto poca dimestichezza
avessero nell'affrontare insieme certi aspetti della vita.
A furia di parlarsi a gesti, nel frastuono dei torrenti, s'erano
dimenticati come si impostava un discorso. E dato che non era né di
calcio, né di politica, né tantomeno di pesca che dovevano parlare,
riusciva loro estremamente difficile mettersi in gioco apertamente,
dirsi cosa uno si aspettasse dall'altro. Ciò che li accomunò, in quella
curiosa circostanza, fu la sensazione di essere stati prossimi valicare
una porta, un confine.
L'animo umano si manifesta a volte con reazioni straordinariamente
simili tra loro, nelle pur grandi diversità di contesto.
Padre e figlio che si guardano negli occhi senza sapersi confessare un
sogno, una rabbia, un desiderio, che si lasciano sfuggire l'opportunità
di allargare il loro rapporto, di dilatare i loro affetti, non sono
forse pari ai giovani innamorati che non osano dichiararsi per
timidezza, vergogna, paura d'essere respinti nel momento in cui
manifestano la loro vulnerabile sincerità?
Che costo hanno questi timori nel bilancio vita?
Quante occasioni fuggite, quanti rimpianti. E sempre quando ormai è
troppo tardi per porvi rimedio...
Marco avrebbe potuto raccontare al padre delle sue notti insonni
aspettando il rientro di Loretta e trovare in lui il necessario
conforto. Sì, perché avrebbe voluto un figlio più di ogni altra cosa,
per giocarci, per vederlo crescere, per fare di lui e di sua moglie una
vera famiglia.
Per portarlo a pescare insieme al nonno.
Angelo sarebbe riuscito a liberarsi dei suoi rimorsi atavici, come
l’essere stato sufficientemente presente in casa, l’aver centellinato la
propria disponibilità e le proprie energie ai figli, dedicandole al
lavoro. Quelle energie che, rinvigorite da un nipotino, oggi sentiva di
poter finalmente riversare sul desco famigliare.
Ma anche quella volta la preda era scappata, era scivolata verso la
corrente, pur essendo stata così vicina alla cattura.
La giornata stava esaurendo i suoi ultimi momenti d'interesse col caffè
e l’immancabile grappino: tra poco sarebbero discesi a valle rientrando
fieri a casa con il loro bottino, mentre il nastro registrato,
diffondendo le note di Mahler, avrebbe creato un altro delicato pretesto
per non mettere allo scoperto i loro sentimenti.
Il temporale scoppiò all'improvviso.
Una saetta accecante scaricò tutta la sua frastornante potenza a poche
centinaia di metri ed iniziò a piovere così violentemente da
costringerli ad accostare a lato della strada.
Visibilità nulla e cigli stradali totalmente sprotetti consigliavano
estrema cautela.
Ma in pochi minuti quella che era una tranquilla stradetta sterrata si
trasformò in un torrente.
C'era poco da fare in una situazione come quella. Purtroppo l'acquazzone
li aveva colti in un punto pericoloso, molto vicini ad un canale di
scolo che attraversava il percorso. Di ripartire neanche a parlarne, ma
certo bisognava sperare che smettesse presto, altrimenti quel rivolo
terroso, già di per sé consistente, si sarebbe trasformato in una vera e
propria cascata.
- Papà, qui si sta mettendo male.
- Lo vedo. Del resto, per il momento non c'è che aspettare, perché su
questo terreno portar giù la macchina è impossibile.
- Cristo, ma hai visto cosa scende dal canale! Fra cinque minuti finiamo
sommersi dal fango.
Angelo sapeva bene il rischio che correvano, ma non se la sentiva ancora
di abbandonare l'auto.
Se avesse smesso di colpo nel giro di qualche minuto la strada poteva
tornare praticabile.
Ma la pioggia aumentava e il fragore degli scrosci sul tetto era tale da
costringerli a gridare ogni elementare comunicazione.
Poi accadde qualcosa di strano. Fu come se qualcosa si fosse mosso. Non
era facile capire cosa stava accadendo in quel momento, ma entrambi
ebbero l'impressione che l'auto si stesse spostando.
- Salta giù - Urlò Angelo al ragazzo afferrandolo per un braccio.
Si ritrovarono sotto una doccia martellante con le gambe immerse fino al
ginocchio nella corrente melmosa.
Marco inciampò e perse il cappello ma, seppure a fatica, riuscirono ad
inerpicarsi su uno sperone di terreno abbastanza consistente che
delimitava il canale. Presero respiro sotto un faggio.
Marco scorse qualcosa sul crinale, forse una casupola o forse solo una
roccia. Decisero di provare comunque a raggiungerla, anche se non era
affatto semplice muoversi su di un terreno oltremodo scosceso, reso
insidiosissimo dal fango.
Per fortuna indossavano entrambi un paio di pedule da escursione, avendo
riposto gli stivali nel baule al termine della battuta di pesca.
Angelo scivolò per qualche metro verso la scarpata.
- Attento! Attaccati al cespuglio! Papà, il cespugliooo!!! - urlò Marco
facendo un balzo.
Il ragazzo compì una contorsione afferrandosi alla ramaglia e,
lasciandosi scivolare da un arbusto ad un altro, raggiunse il padre. Lo
aiutò a riprendere una posizione eretta e, ristabilitisi su un tratto di
terreno più solido, raggiunsero la meta.
Sembrava all'apparenza una costruzione solida e abbastanza riparata: un
luogo di rifugio tutto sommato inaspettato in quell'inferno di elementi.
La porta sprangata da un asse consunto non costituì un problema.
Entrarono e videro con gradita sorpresa che era meno mal in arnese di
quanto lasciasse pensare a prima vista.
Si accasciarono sulla panca. Il tetto era buono e non lasciava filtrare
acqua. Quando i loro occhi si adattarono all'oscurità, videro che in una
rientranza della parete c'era persino un caminetto e anche della legna
accatastata in una nicchia sotto la minuscola finestra. Terminata la
paura presero un po' di fiato e cercarono di ricomporsi.
Erano luridi di fango, zuppi ed ancora scossi.
Angelo s'era ferito al viso con gli occhiali, che poi chissà dove erano
finiti.
Marco estrasse dal marsupio il telefono, ma, dopo una breve occhiata al
display, scosse la testa: la zona non era coperta, niente segnale e
niente soccorsi. Dovevano aspettare.
Angelo si avvicinò alla credenza e dopo aver rovistato in un paio di
cassetti trovò una scatola di fiammiferi.
Il ragazzo aveva già in mano
un vecchio giornale e in pochi minuti il fuoco fu acceso.
Quando il tepore si fu diffuso nel locale, la tensione cominciò ad
allentarsi.
- Credi che la macchina sia persa definitivamente? -
disse Marco
attizzando le braci senza guardare in viso suo padre.
- Non so, ma credo che ci siano poche speranze, la corrente stava
trascinando tutto verso la forra. Può darsi che sia appoggiata a qualche
albero, ma non dobbiamo farci grandi illusioni...
- Una cosa del genere non m'era mai capitata, non ho mai assistito ad
uno spettacolo simile.
Mi ricordava quelle drammatiche immagini viste in televisione durante i
servizi sulle inondazioni.
E' stato terribile sentirsi scappar via tutto sotto i piedi!
- Neanche a me era mai successo. Di simile ricordo solo un temporale in
Val Rezzo, quando eravamo in vacanza a Buggiolo e tu eri ancora un
ragazzino. Eravamo stati a pescare sul lago, a Porlezza, sul terrazzo
del Celso.
- Dove c'erano le savette!
- Esattamente. Ricordo che era una bellissima giornata, molto calda.
Poco prima di partire erano arrivate alla spiaggetta un gruppo di
ragazze olandesi e s'erano spogliate davanti a noi come se nulla
fosse...
- Si, si, adesso che ci penso me lo ricordo anch'io, però quel
particolare del temporale…
- Fu quando arrivammo a Carlazzo, vicino all'orrido. Cominciò a tuonare
e in pochi minuti si ruppero le cataratte del cielo. Io rimasi lì per un
po', ma si stava facendo tardi: tua madre e tuo fratello ci aspettavano
in quella specie di tugurio, soli, con le pecore e i maiali... e così
decisi di ripartire sotto il diluvio.
Fu come risalire un torrente, ma la macchina teneva: la nostra vecchia e
gloriosa 850...
- Si, forse ricordo qualcosa, ma probabilmente non avevo colto il
pericolo. Stavo con te e mi sentivo sicuro!
Angelo sorrise. Aveva un ginocchio che gli doleva, gli occhiali
frantumati e forse aveva perduto l'auto nel torrente. Se avesse
continuato a piovere così intensamente probabilmente non sarebbero
riusciti a raggiungere casa per la notte. Non era certo una situazione
allegra, quella in cui s'erano ficcati, ma non provave angoscia.
Anzi....
- La sai una cosa? - disse Marco - Mi ruga l'idea delle trote chiuse nel
baule dell'auto.
- Ti sembrerà cretino, ma l'ho pensato anch'io. Non sopporto l'idea di
averle ammazzate per niente. E' la strana morale del pescatore...
- Quando andavo nei fossetti col Giorgio ed ero ancora un ragazzino col
moccio al naso, un giorno accadde una cosa strana. Pescai un triotto
molto grosso, fai conto un quindici centimetri, e lo infilai nel
sacchetto di cellophan. Non so come successe, ma spostandomi sulla riva
lo calpestai senza accorgermi. Quando ripresi in mano il sacchetto
trovai il pesce spappolato, inutilizzabile per il fritto. Ricordo ancora
la vescica natatoria, enorme, gonfia d'aria come un palloncino. Giorgio
prese il pesce e lo gettò nei rovi, dicendo che se lo sarebbero mangiato
le formiche, poi c'avviammo verso la strada ed io cominciai a lacrimare.
Non so bene se la mia tristezza dipendesse dal fatto che non avrei
potuto mostrare la mia cattura o se invece ero sinceramente dispiaciuto
d'avere ucciso un animale per niente... o forse tutte e due le cose. Ti
sembrerà strano ma qualche volta ci penso ancora oggi.
- E Giorgio cosa ti disse?
- Che ero scemo, di primo acchito, poi giustificò comunque quella
morte sostenendo che anche le formiche avevano i loro diritti e che la
natura, alla fine, adopera, e disse proprio "adopera", tutto quello che
trova e che quella, in fondo, era la sua forza. Fu un discorso che mi
tranquillizzò, anche se quel fatalismo... insomma era un po' forte come
principio. Pensa che ne parlai in un compito in classe di italiano
qualche anno dopo, al liceo… e impiegai lo stesso termine "adopera", che
a me sembrava tanto carino e meno freddo di impiega, utilizza, sfrutta..
tutti termini che invece la professoressa di lettere riportò sul foglio
come sinonimi più appropriati.
- Il liceo....scommetto che successe in prima!
- Esatto. E l'insegnante... forse la ricordi anche tu; era quella strana
persona che parlava a toni alti, molto teatrale nell'esporre le sue
convinzioni.
- Ma tu non ci andavi d'accordo?
- Con lei abbastanza, erano gli altri che non sopportavo. Soprattutto la
scostante e uterina professoressa di matematica.
- Al punto che stavi per decidere di non presentarti all'esame di
riparazione!
Marco tacque. Erano passati molti anni, ma, sebbene le ferite si fossero
rimarginate, le cicatrici di quel periodo restavano.
Avevano litigato per la prima volta in modo radicale lui e suo padre in
merito a quella decisione.
Marco avrebbe voluto abbandonare il liceo,
umiliato dall'assurda votazione di fine anno, che lo costringeva a
portare a settembre, per soli motivi disciplinari, due materie che
conosceva bene. Sul latino niente da dire: avevano ricavato la media dei
voti del quadrimestre, arrotondando per difetto, anche se gli ultimi
compiti in classe e le interrogazioni erano stati molto più che
sufficienti.
Ma matematica proprio no! Si trattava di un provvedimento assolutamente
ingiusto, considerando che egli si riteneva tra i migliori, se non il
migliore della classe.
Cosa fare? Tutto il suo sangue di quindicenne ribolliva di rabbia.
Dov'era la giustizia? Come poteva la scuola fargli un simile torto e
solo per via del fatto che aveva partecipato all'occupazione
dell'istituto?
Molti compagni di classe si erano indignati al par suo per quella
decisione. No, non era un leader naturale in quel gruppo così eterogeneo
di studenti, ma s'era certo conquistato un po' della loro adolescenziale
stima, visto che era partito con diverse lunghezze di svantaggio nella
preparazione ed aveva comunque saputo migliorarsi. E poi c'era lo sport,
il suo ruolo di ala nella squadra di basket del liceo. No, non ci voleva
tornare il quella scuola maledetta.
Non voleva presentarsi agli esami
per dare soddisfazione ai suoi aguzzini, legittimando il loro
prevaricante arbitrio...
Doveva dare un segno tangibile della propria personalità!
Sere e sere di discussione. Giorni di musi lunghi e di dissociazioni dai
piaceri comuni di famiglia. Anche dalla pesca e persino durante le
vacanze. Il rapporto col padre era ad una svolta: Angelo non aveva mai
nascosto al figlio il proprio pensiero, ma lo voleva lasciare libero
nella decisione ultima, voleva trattarlo da adulto.
Anche lui, tuttavia, era preda di inquietanti perplessità. Non era
affatto sicuro che quel suo atteggiamento "tollerante" muovesse
esclusivamente dal desiderio di far maturare il proprio pargolo e non
avesse, invece, risvolti più oscuri. Fino a che punto egli stava
defilandosi dal ruolo di guida paterna che il destino gli aveva
riservato?
Non era forse ancora troppo giovane, Marco, perché autodeterminasse le
proprie scelte esistenziali?
Su quali elementi poteva basarsi la sua decisione, visto che
l'esperienza era del tutto assente?
Così decise di travasargli mille dati, anziché decidere per lui.
E lo infarcì di consigli .
- Ma poi l'esame lo feci e lo passai.
- Vero. Ricordati che fosti libero di decidere.
Parlarono al passato remoto, inusuale tra la gente del nord, per
distanziarsi da quel momento che entrambi avevano vissuto come
difficile.
- Seee... libero mica tanto.
- Perché dici questo? Le regole le avevamo decise insieme ed io avrei
rispettato qualsiasi tua scelta.
- Ma era una scelta obbligata. Durante l'estate non si parlò
d'altro...tirasti fuori pure l'esempio dello zio Rinaldo e della sua
tenacia che gli salvò la pelle durante la guerra!
- Ma la scelta fu quella giusta, mi pare...Cosa volevi fare, abbandonare
il liceo? Con la tue possibilità? Ero certo che ti saresti fatto onore
nella vita.
- E allora perché non me lo hai imposto con chiarezza, invece di
costringermi a prendere una decisione che avevi già preso tu in
partenza?
- Non ti capisco. Se t'avessi imposto il mio volere, dando per scontato
che fosse a fin di bene, avrei reso la tua scelta meno convinta, meno
consapevole, non trovi?
- Avevo quindici anni e non ero in grado comunque di decidere con
autonomia... diciamo che mi hai fatto credere di poter decidere una cosa
che era già scontata.
Angelo sorrise e si alzò dalla panca.
Marco s'era laureato. Oggi aveva lavoro e famiglia: era quindi ridicolo
ritornare sulle modalità di una decisone rivelatasi giusta e che
continuava a dare i suoi frutti.
Guardò il figlio con tenerezza.
In fondo non erano poi così diversi, loro.
In quel momento lo sentiva vicino come non mai, quasi che le barriere
generazionali si fossero sciolte in quel diluvio.
Oggi sentiva che il rapporto antagonistico che aveva sempre
contraddistinto le loro relazioni apparteneva al passato e che erano
molte più le cose che li legavano da quelle che li avevano tenuti a
distanza per tanti anni.
Uscì a prendere una boccata d'aria perché l'ambiente fumoso cominciava
ad irritargli la gola.
Uscì e si sentì mancare le forze all'improvviso.
Una tenaglia alla gola e dietro alla schiena, qualcosa di fisico,
opprimente, lancinante.
Tentò di aprirsi la camicia come a liberare il suo petto da quella
morsa.
Poi fece due passi avanti, senza aver il fiato di gridare, senza
riuscire a voltarsi. E rimase lì, in piedi, sotto l'acquazzone, mentre
il terreno piano piano cedeva sotto il suo peso.
Solo allora Marco si voltò.
- Papà, che fai, vieni dentro che ti inzuppi di nuovo, tanto qua non c'è
verso di tornare a casa.
Ma Angelo pareva non udire le parole del figlio.
Restava là, come una statua di gesso, paralizzato dal dolore e dalla
paura.
Marco credette che il padre volesse essere lasciato in pace: forse era
la preoccupazione o forse una delle sue ombrosità, magari legata alla
discussione appena conclusa.
Scuotendo la testa come un genitore indulgente nei confronti dei banali
capricci del figlioletto, rimase accanto al fuoco.
Ci volle un po' di tempo prima che s'accorgesse della sparizione del
padre e quando decise finalmente di alzarsi per andare a recuperare il
fradicio genitore, trasalì.
- Papà! Papà!!! Dove sei finito? - urlò nella pioggia scrosciante, senza
ottenere risposta.
E all'improvviso comprese la gravità di quell'irrazionale situazione.
Intanto Angelo si era lasciato scivolare sul pendio, fino a raggiungere
il boschetto di ontani.
Il torrente rombava nella forra: una cosa spaventosa.
Forse era così che si rivelava l'inferno, altro che fiamme! Tronchi in
balìa della corrente, tritavano le rive, estirpandone altri dagli argini
divenuti morbidi e cedevoli come burro.
Acqua marrone, violenta, assassina, che divorava ogni cosa. Che non si
poteva fermare, come il corso degli eventi.
E dentro l'acqua le cose che ami, che odi, quelle che valgono e quelle
che ti fanno soffrire, si perdono e confondono, si mescolano nel
turbinìo limaccioso della piena.
In fondo ci si arriva sempre, prima o poi a quella catarsi...
Solo, non sapeva spiegarsi perché il destino aveva voluto che accadesse
ora, simultaneamente alla consapevolezza di essere così vicino alla
meta, di avere finalmente raggiunto suo figlio.
Perché non era scivolato sul pendio che conduceva alla malga?
Perché proprio adesso?
Ma aveva senso pensarlo?
Cosa sarebbe cambiato?
Sua moglie poteva abituarsi all'idea e, in quanto ai figli, era un
processo normale...naturale come le stagioni.
Tutto era a posto, perfettamente in ordine.
La casa era stata ingrandita, ogni debito estinto, anche quelli relativi
all'educazione dei sentimenti...
Rifletteva, afferrato ad un giovane ontano: tronco scuro, radici ben
piantate nella terra.
Una pianticella tenera, ma che infondeva sicurezza, anche in quella
follia di elementi.
Così avrebbe voluto essere considerato dagli altri, aspirazione che,
almeno in parte, s'era effettivamente realizzata.
Non solo un fatto di sicurezza economica: era una famiglia vera, un
focolare unito, quello che aveva dato ai suoi figli... anche se oggi
parevano obiettivi desueti, in un mondo che corre così in fretta....
Eppure un riferimento aiuta, è indispensabile per sopravvivere al vento
della storia.
Poteva menar vanto del fatto che le sue certezze etiche erano state
efficacemente tramandate, erano impresse nei figli come un marchio di
fabbrica.
Sentiva che le forze lo stavano abbandonando e il dolore era così
totalizzante, così angosciante...
Quanto tempo sarebbe resistito ancora?
Avrebbe rivisto ancora, per una volta, suo figlio?
Pioveva così forte... perché non veniva a cercarlo?
Non sarebbe servito a salvarsi. No, non più. Sapeva che il suo cuore non
avrebbe retto. Ed una specie di tremore interno lo pervadeva...
O forse era la pioggia che lo feriva violenta?
E dire che i temporali gli erano sempre piaciuti...
Quando era bambino, durante i bombardamenti, chiudeva gli occhi e
pensava ai tuoni per trattenere la paura.
Le trote, le sue trote, se la passavano anche peggio, in quel momento:
loro ci dovevano vivere nella forra.
Lui soltanto morire.
Così, allentando la presa, accarezzò per l'ultima volta la pianticella e
scivolò in silenzio nei gorghi.
Massimo Anile
Rozzano (Milano), anno 2007
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