La
luna e l'inchiostro
di Luigi Negri
Guardai l'orologio, era da poco
passata la mezzanotte.
La luna era alta nel buio del cielo.
Prima di andare a dormire, uscii sul balcone per respirare l'aria della
notte.
Un refolo di vento che veniva dalle vette, mi suggeriva che l'indomani
sarebbe stato un buon tempo.
Mi addormentai ascoltando il canto dell’acqua del ruscello che scorreva
quieta, sotto casa.
Avevo deciso di andare da solo. Non so bene il motivo, forse per dedicarmi
di più alle cose della natura o al paesaggio o a tutto quanto mi stava
intorno o chi lo sa.
Non era mai successo, ma era un desiderio che era cresciuto nel tempo. E
così mi decisi.
Avevo poco più di vent'anni e la Sorte, con l’aiuto dei miei genitori, mi aveva consentito di vivere le
montagne in tutte le stagioni. Autunni con il vento che stacca le foglie
dai rami; inverni durante i quali la neve scende sulle case, sui monti e
sugli occhi dei bambini che la guardano incantati; primavere con le nuvole
spinte dal vento e gli squarci azzurri del cielo; estati, quando la sera
scende tardi nelle valli.
Ogni stagione consegnava ai miei occhi la propria bellezza ma, aldilà
dell'estate, quando potevo incontrare i vecchi amici, negli altri periodi
dell'anno, purtroppo brevi, le
possibilità di andarmene in giro per i monti in compagnia, erano davvero
scarse.
Così, lentamente, come il fumo quando penetra dalle fessure, si fece
strada in me la convinzione di poter andare da solo. Cominciai, allora, a
credere a quella possibilità.
Quella sarebbe stata la mia prima uscita in “solitaria“. Pensai di
celebrarla degnamente scegliendo per quel battesimo il ciclope di pietra
che precipita verso la Val Gardena: il Sassolungo.
Ne avevo sentito parlare come
di una montagna difficile, riservata ad alpinisti esperti, che celava tra
le sue rocce,
come ori in uno scrigno, tre
piccoli ghiacciai.
Non avevo ancora nessuna
esperienza di roccia e possedevo una attrezzatura quantomeno
approssimativa.
Avevo percorso qualche via
ferrata con qualche amico e niente di più. Ma tanto bastava.
Studiando la cartina,
stabilii che avrei potuto risalire il massiccio al suo interno, sfruttando
una via in parte attrezzata e raggiungere così
la cima del Sassopiatto che ha il vantaggio di presentare, verso l'Alpe
di Siusi, un ampio fianco detritico che
avrebbe reso agevole la discesa.
Non erano ancora le sette del
mattino quando raccolsi lo zaino e scesi fino alla statale dove, di lì a
poco, sarebbe passata la corriera che mi avrebbe portato al Passo Sella.
La luce aveva ancora un piede in terra e uno
sulle montagne e il cielo si
specchiava nella rugiada.
La mattina era bella e pulita e il sole, dietro
i monti, ne disegnava i contorni.
Trovai posto accanto al finestrino e
poco dopo, davanti ai miei occhi che presto si richiusero, cominciarono a
sfilare paracarri bianchi e neri, nomi di paesi e qualche cifra.
Li riaprii sui primi tornanti
del Sella, con il sole che giocava sul mio viso. Sceso dalla corriera,
l'aria fresca mi risvegliò completamente. Mi infilai una maglia pesante e
mi incamminai piano verso l'impianto di risalita.
Dalla chiesetta, posta di
fianco all'impianto, uscivano alcuni rocciatori che avevano assistito alla
Messa prima di cercare, arrampicando, di
toccare il cielo.
Passai accanto a loro osservandoli in volto. Erano seri
e concentrati e la prima immagine che mi venne
alla mente fu quella dei Toreri che, dopo la funzione, si apprestano ad affrontare il toro.
Concentrazione e rispetto per ciò a cui andavano incontro. Toro o roccia
che fosse.
Un alone di sacralità
avvolgeva le operazioni abituali che venivano svolte con gesti misurati,
accompagnati
da tintinnìi metallici e dal
canto della brezza. Unici suoni nell'assenza di parole.
Continuai ad osservarli
mentre le funi dell'impianto, ronzando, mi trasportavano su, in alto.
In fila indiana risalirono
verso il crinale erboso che fa da spartiacque tra la Val di Fassa e la Val
Gardena.
Quattro maglioni rossi in una
piccola, intima processione in onore del Dio delle vette.
Sostai pochi minuti al
rifugio Demetz, il tempo di indossare la giacca a vento e di avvertire
nell’aria il profumo
della zuppa che, come vecchia
abitudine, qualcuno aveva messo sul fuoco al tocco dell’Ave Maria, per lasciarla bollire fino
all’ora di pranzo. C’erano poche persone e, tra queste, nessuna mi
seguì per il ripido
sentiero che, in discesa,
porta al Rifugio Vicenza, dove giunsi in capo a un’ora di cammino.
Davanti al rifugio, su di una
panca, un uomo sembrava sonnecchiare, con le braccia incrociate e la bocca
socchiusa. Due persone erano
sedute ad un tavolo all’aperto e, più lontano, in basso, qualcuno stava
faticosamente risalendo il
sentiero, proveniente dall’Alpe di Siusi.
Anche qui, esitai un poco.
Controllai lo zaino con cura, mentre mi guardavo attorno cercando di capire
se
ci fosse stato qualcuno
intenzionato a percorrere il mio stesso itinerario. Nessuno.
Con l’anima un po’ in
pena, chiesi allora al gestore se avessi potuto incontrare particolari
difficoltà nell’affrontare il percorso
e in special modo sulla via ferrata. Bonariamente mi rassicurò e mi
restituì quel
po’ di fiducia che, un po’
alla volta, stava per abbandonarmi.
Lo ringrazio ora, perché le
sue parole mi furono di grande incoraggiamento e, se non avessi
proseguito, mi sarebbe mancato quanto sto
per raccontare.
Avevo con me qualche metro di corda, tre moschettoni e i ramponi, nel caso avessi trovato ghiaccio.
Guardai in alto, non c’era
una nuvola.
Ancora un attimo di titubanza e poi, dentro di me una domanda:
ero o non ero venuto per fare
da solo?
Un momento dopo, stavo
risalendo l’ombreggiato ghiaione del Sassopiatto.
Passò qualche minuto
e
sentivo solo il rumore dei
miei passi sulle pietre antiche mentre il sole, a tratti, prendeva
d’infilata
tutta la gola.
Procedevo
sbuffando, in un formicolio di luce ed ombra, sentendo solo il mio
respiro.
Attorno a me le torri di
pietra svettavano, barocche. Quando le tracce di sentiero mi portarono a virare
decisamente verso destra,
uscii definitivamente dal cono d’ombra. Il sole illuminò presto due
piccoli nevai,
attraversando i quali sarei
giunto all’attacco della via. La neve era tenera e vi affondai fino al
ginocchio.
Poco sopra, potevo scorgere
il segno rosso che indicava il passaggio per arrivare al primo tratto di
fune metallica.
Mi sistemai con quel po’ di attrezzatura in modo da garantirmi una certa
sicurezza nel caso di scivoloni.
Legai la corda in vita e alle due estremità libere fissai due
moschettoni. Tanto bastava.
Diedi un ultimo sguardo verso
il basso, dove si poteva vedere buona parte del sentiero, senza troppa
convinzione.
La rassegnazione aveva lasciato il posto all’orgoglio di essere solo.
Non c’era nessuno, ma
ora non aspettavo nessuno.
Misi lo zaino sulle spalle e partii.
Il tratto di fune metallica
che accompagnò l’inizio, dopo pochi salti di roccia sparì e, per
proseguire, dovetti
affidarmi a qualche raro
segno rosso e alle tracce che i passaggi avevano inciso, nel tempo,sulle
rocce.
Arrivò presto qualche salto
ripido e qualche traversata di
una certa esposizione.
Avvertii un senso di panico;
era la sensazione dello
spalancarsi del vuoto nell’istante preciso in cui mi staccavo da un
qualcosa di solido
che dopo poco non esisteva più, che
svaniva nel sole alle mie spalle.
Uno spezzone di fune ed un vecchio
chiodo arrugginito, ricomparvero nel punto in cui la via passa dalla
forcella che separa la Torre Sassopiatto dalla
parete nord-est del
massiccio. Una staffa metallica agevolava il passaggio sopra un canalone
buio e ghiacciato,
ricadente a nord.
A mano a
mano che salivo, mi sentivo sempre meno un corpo estraneo a quel mondo.
La sensazione che provavo e
che provai tante altre volte nel tempo, era quella di appartenere a
quell’ambiente,
di esserne parte, di essere
accettato e non rifiutato. L’assenza di voci umane, il solo rumore dei
miei
movimenti sempre meno incerti, mi facevano sentire un tuttuno con quel luogo.
Ero parte di quel mosaico,
come lo era un sasso, un ciuffo d’erba o un uccello che vola alto nel
cielo.
Salivo avvertendo che la
paura iniziale per il fatto di essere solo, mi stava abbandonando.
D’un tratto mi parve di
capire. Non avevo paura perché ero solo, ma mi sentivo solo perché avevo
paura.
Mi fermai allora su di una
cengia e mi guardai intorno. Il cuore rallentò e gli occhi presero a
camminare.
Gli unici rumori erano quelli
del vento tra le rocce e di qualche piccolo sasso che rotolava da qualche
parte,
distante. Ero solo, tra quelle
cattedrali di roccia che venivano dai tempi antichissimi, dagli oceani del
vuoto, dai tempi inesplorati, prima
dei Padri e dei versi di Omero, prima degli Dei e degli imperi dell’Uomo.
Sentii l’eterno, vicino a
me. Ero lì, dentro di me e in mezzo ai monti e alle loro creature, ognuna
a svelarci un pezzo del
nostro cuore. Ero sasso e sangue. Sguardo e vento. Per ragioni che non
conosco.
D’un tratto l’impulso fu
quello di rompere quel silenzio maestoso, e gridai per due volte il mio
nome.
Assaporavo il silenzio che si
ricomponeva nelle pause. Un silenzio udibile tra un grido e l’altro.
Un
silenzio
che era come qualcosa che
cresceva, come una rosa nera che fiorisce nel buio, mentre il suono della
mia
voce se ne andava, come se ne
vanno i minuscoli pezzetti di carta dispersi dal vento.
Passò un corvo, alto nel
cielo. Forse uno di quei corvi che, come vuole la leggenda, raccoglievano
le anime
dei guerrieri uccisi e,
trasformati in fiori, le recavano sui monti dei Lagorai.
Seguii con gli
occhi quel volo,
che spezzò l’incanto della
solitudine.
Ripresi così la salita che
proseguì tra brevi pareti, canalini e qualche aerea cengia. Alcune ripide
placche e un
altrettanto ripido camino
rappresentarono le ultime difficoltà. Poi la via si fece più semplice e
meno erta la salita.
Fino alla cima.
Ai miei occhi si offrì la
grandiosità del Sassolungo: uno spettacolare anfiteatro di roccia.
Mi versai un poco da bere e
mi sedetti a contemplare le cose che accadono al di sopra del silenzio.
Ero contento. Mi sentivo
nessuno in un giorno di nessuno. Era stato un bel giorno, lungo e senza
parole.
I miei compagni erano la luce
del sole, le nuvole, il gioco del vento e l’inganno dell’ombra.
Il tempo scivolò via dolce
e, prima di lasciare quel posto, per scendere verso il rifugio, volli
sfiorare il cielo.
Lo vedevo e lo sentivo così vicino, che lo toccai con il mio dito più corto.
Mi avviai allora, per le
rocce scoscese, lungo il pendio sud-ovest. Lasciata alle mie spalle la
vasta zona detritica, attraversai i
pascoli camminando verso il rifugio, dove giunsi poco prima del
crepuscolo.
Seduta sul bordo di un abbeveratoio, una ragazzina suonava la foglia di un
fiore offrendo il volto all’ultimo sole
e i lunghi capelli ai venti della sera. L’acqua rispecchiava l’ultimo
riflesso rosa del tramonto.
Le finestre erano aperte e, dall’interno, arrivava distintamente il
tintinnio delle posate che urtavano contro i
piatti.
Ai tavoli già si serviva la cena. Nella saletta da pranzo, calda di legno
usurato dal tempo, alcune persone di
una certa età masticavano in silenzio. In fondo, nella penombra, uomini
vestiti di scuro, giocavano a carte.
Chiesi una stanza per passare
la notte e mi fu assegnata una piccola camera nel sottotetto.
Salii per deporre lo zaino e
per prepararmi per la cena. All’interno c’era un silenzio assoluto.
Anche dalle
scale non arrivava nessun
rumore. C’era solo una grossa mosca che ronzava e picchiava nel volo,
andando
a sbattere contro il vetro
della finestra oltre la quale svettava, imponente, il Catinaccio.
Poco dopo ridiscesi e mi
sedetti ad un tavolo. Sulla parete accanto, alcune vecchie foto che
ritraevano alpinisti negli anni ‘30, erano addette alla nostalgia.
Sguardi fieri e brillantina sui capelli.
Uno degli avventori, stava in
piedi vicino ad una finestra. Portava dei pantaloni verdi, grossi scarponi
di cuoio e
sfoggiava sulla camicia chiara, una leggera cravatta sottile, a righine rosa.
Teneva la giacca sul
braccio con
noncuranza e, di tanto in
tanto, guardava fuori.
La ragazza che serviva ai
tavoli mi portò una brocchetta d’acqua e un bicchiere e mi propose una
zuppa di fregolotti, grossi grumi di farina impastata e fatta cuocere nel
latte. La fame, che era tanta, mi costrinse
a chiederne due scodelle, riuscendo a far sorridere la giovane cui non difettava il
buonumore.
Un poco di vino sarebbe stato
il loro degno compagno. Mangiai con l’avidità dei miei anni e,
sollevato lo sguardo
dal piatto vuoto, incrociai
quello del signore con la giacca sul braccio, ancora in piedi vicino alla
finestra che
mi guardava divertito.
Istintivamente lo invitai a sedersi al mio tavolo, pensando che avremmo
potuto scambiare due parole, assaporando quella
gioia latina di parlarsi che mi mancava già un po’.
Probabilmente
avvertiva
anch’egli lo stesso
desiderio, e si avvicinò lentamente.
Lessi sul suo volto un sorriso
malinconico, mentre si
sedeva al mio tavolo.
Chiese
un po’ di vino e gettò lo sguardo all’esterno, dove le stelle, ormai,
si contendevano
il cielo e le loro luci
meticolose annunciavano che l’aria era diventata scura.
Qualche frase di rito sul
tempo e sui monti circostanti, servì a scegliere, i toni che avrebbero
regolato e dato
la giusta forma al nostro
dialogo mentre, a poco a poco, gli avventori si trasferirono nelle loro
stanze.
Il vino aiutò le lettere a
divenire parole e le storie cominciarono ad affiorare, nitide, sul filo
della notte.
Mi disse che il suo nome era
Berto, e che se l’era dato lui, quel nome, diversi anni prima. Proprio così.
Sorrideva e, intanto, lo
sguardo andava lontano. Non dissi nulla e rimasi ad aspettarlo, in quel
posto lontano.
Come fosse capitato con il
lembo del vestito nella ruota di un ingranaggio che avesse cominciato a
tirarlo
dentro, si sciolse lentamente
in un racconto dove le immagini erano affollate e i sentimenti pigiati
dentro
spazi troppo stretti. Quando
le luci, poi, se andarono via, dentro al buio, solo la luna restò a
rischiarare quella
saletta dove due esseri umani, attraverso le parole, stavano cercando di dare ali alla tristezza per
farla volare via.
Nella penombra, accompagnate
dal suono del vino versato nei bicchieri, ascoltai storie di monti e di
un’amicizia che, nata sui primi banchi di scuola, era arrivata fino alle
arrampicate rubate alle famiglie nei giorni di festa.
Giorni e notti senza rimpianti, passati tra crode e pareti, torri e vuoto,
nelle Dolomiti dei loro sogni.
Frammenti di vite che
ruotavano tutti attorno alla storia buia, nascosta in fondo all’imbuto
narrativo, che li avrebbe risucchiati
tutti, legandoli a sé alla fine di una trama crudele, ordinata e paziente.
L’epilogo di tutte le
storie di quella notte era avvenuto sulla Punta Grohmann.
Sulla via Dimai
della Punta Grohmann.
Una caduta alla
“Menschenfalle” aveva relegato l’amico fraterno all’imperfetto
dell’essere.
Un appoggio scivoloso e
il destino lo aveva spedito da un “è” a un “era” in una bella
giornata di sole con la brezza che accarezzava l’erba dei pascoli.
Lo
seppellirono sotto un temporale, era l’estate di qualche anno fa, di un
tempo che non c’è più.
Berto era il nome dell’amico e compagno di arrampicate. Lui aveva preso
quel nome come per farlo vivere ancora, per portarlo con sé, come due
lancette dello stesso orologio, come due desideri per una stella sola.
Da quell’accadimento, era
la prima volta che tornava in quella zona. Era salito dall’Alpe di Siusi
e, l’indomani,
sarebbe passato
sotto la Grohmann. Queste
erano le sue intenzioni. Scavava in quelle storie colpendo un po’
a casaccio, come se la
memoria provasse soggezione di fronte a quel dolore di ghiaccio.
La luna, sempre lei, aveva
ormai solcato il cielo per intero quando la nostra conversazione terminò,
sfumando
dolcemente, e i tanti ricordi
se ne sarebbero andati con Berto, per i mari senza inizio e senza fine.
Si alzò dal tavolo e mi
salutò porgendomi la mano e scusandosi nel caso le sue parole mi avessero
annoiato.
Mi confessò di essersi trovato un po’ in affanno, tornando in quel
rifugio. Come il “matto” tra le carte da gioco può risolvere una
crisi momentanea, il nostro incontro gli aveva permesso di dare voce ai
ricordi.
Il raccontare aveva riportato
la vita, anche solo per poco. Ma tanto bastava.
Aprire il proprio cuore era
stato come trovare un diamante nel pane.
Quelle furono le ultime parole
che mi disse, prima di chiudere la
gola alla voce.
Mi strinse la mano e si allontanò, scomparendo nel buio
delle scale
assieme al suo destino, senza
far rumore.
Non lo rividi mai più.
Me ne restai seduto al tavolo
ancora un poco, immerso nel buio.
Sentivo ancora, attorno a me muoversi le
immagini evocate, come strani
fantasmi notturni, mentre, fuori, la luna era più bassa delle stelle.
Salii piano ed entrai nella
mia stanza. Il sonno era ancora lontano, malgrado la fatica della giornata,
e mi
affacciai alla finestra. La
notte era chiara. In cielo una stella che tremava, poco più in là un
aereo in volo.
E poi le cime del Catinaccio
che ancora la luna illuminava. Restai incantato a guardarlo.
Allora, come una visione
consolatoria, mi vennero alla mente i Salvani, i nani abitatori delle
caverne e dei boschi, radunati in circolo sulla cima di un monte, intenti,
con i loro strani movimenti, a filare la luce della luna
radunandola in un gomitolo.
Questo avvenne contemporaneamente su ogni cima delle Dolomiti, tanto e
tanto
tempo fa.
I Salvani avrebbero
poi srotolato i fili lucenti dalle vette giù per i pendii e poi tutt’attorno
ai monti,
fino ad avvolgerli in una
rete di pallida luce. Fu così che divennero i Monti Pallidi.
Lo scopo di questa magica operazione, era quello di fare in modo che la figlia del Re della
Luna, di
cui era innamorato il figlio di un Re
che aveva il suo regno proprio nelle Dolomiti, di poter vivere accanto a
lui, sui monti, senza
che la nostalgia per la Luna, la facesse soffrire.
Forse, quella sera, i Salvani
avevano preso le nostre sembianze. Avevamo portato luce nell’ombra di
quelle
vite che il cielo aveva così
duramente colpite. Avevamo pazientemente filato la luce portandola in quel
grande
deposito del passato che è
il buio. L’anticamera dell’oblio, che tutto inghiotte.
Nel buio, tra saperi scomparsi, libri dimenticati, leggende scadute, miti
perduti, dei impotenti, tutti in attesa di una
formula per essere richiamati
in vita, si era illuminata quella piccola, tragica storia di amicizia e di
montagne.
Ci eravamo mescolati ai ricordi, ridando loro vita, sotto la luce materna e dolorosamente affettuosa
della luna.
Ciao Berto, amico di una
notte sui monti. Che la vita ti sia lieve, chiunque tu sia.
E ora, che venisse pure la
notte. Domani i rumori della gente, domani nuvole e sole. Domani.
Prima di addormentarmi, promisi a me stesso che avrei ricordato quella giornata
intensa, di forti emozioni.
Le avrei dato la forma del foglio, vergandolo con i tratti del
ricordo.
Guardai la luna, lontana, per l’ultima volta.
Quella luna che mi accompagnava serena dalla sera prima, ora sarebbe
serenamente tramontata dietro ai monti.
Sorrisi e pensai che avrebbe continuato il suo percorso oltre i monti e
oltre le valli, fino ad immergersi in un calmo mare nero. Un mare
d’inchiostro. E così sia.
Luigi Negri
Milano, maggio 2007
Nota
della Redazione.
Le
immagini a corredo del racconto sono tratte da:
"Sassolungo
e Sella" (1981) di Luca Visentini. Athesia Editrice.
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