Il ragazzo con la bicicletta
di
Gabriele Villa
“Era
un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”.
Così recitava la canzone e sappiamo tutti com’è andata a finire.
Il ragazzo della nostra storia, invece, amava la musica melodica e non
certo per snobismo, semplicemente perché era di una generazione
precedente.
Anche lui, come tutti i suoi coetanei, aveva “attraversato” la seconda
guerra mondiale poco più che adolescente, per affrontare, oramai
giovanotto gli anni che avrebbero condotto il Paese al così detto boom
economico degli anni sessanta. Ma lui, tutto sommato, si poteva
considerare quasi un privilegiato perché era figlio di un piccolo
imprenditore, uno di quelli che, forse senza neanche averlo premeditato né
previsto, aveva avviato un’attività “emergente” ed in forte
sviluppo: quella del fornaciaio. Produrre e vendere mattoni, nei primi
anni del dopoguerra, quelli della ricostruzione e dell’espansione
edilizia, era attività che “tirava”.
Cosicché il ragazzo della nostra storia, impegnato nell’azienda di
famiglia, poteva godere di buone condizioni di vita e “comodità” che
ai più forse erano, a quei tempi, precluse.
Per esempio poteva trovare il tempo ed i mezzi per coltivare una passione
grandissima, quella di andare con la bicicletta in montagna. Per fare
questo possedeva una bicicletta veramente speciale ed io lo so per certo,
perché l’ho vista di persona ed ho potuto anche provarla.
A distanza di anni la vidi, oramai dismessa, nel magazzino annesso a
quella che era stata la stalla di proprietà del nonno e sembrava ancora
in discrete condizioni.
Così ne gonfiai le gomme e ci feci un giro.
Quello che mi aveva colpito era stata la foggia del manubrio che ricordava
quello di una “Vespa”.
Infatti, incorporato nella sagoma, aveva il contachilometri, oramai
purtroppo non più funzionante.
L’altra particolarità era data da una delle due manopole che girando
faceva suonare il campanello, anche quello incorporato nel manubrio; una
sciccheria incredibile per quei tempi.
Ovviamente era dotata di cambio il che ne faceva una bicicletta sportiva,
anche se con assetto da turismo. Alle mie domande curiose, qualcuno della
famiglia aveva risposto che era proprio con quella che il ragazzo della
nostra storia si era recato più volte in montagna, dando sfogo alla sua
passione. Gli era stato di stimolo andare a trovare i parenti acquisiti da
quando suo padre aveva sposato, in seconde nozze, una giovane donna di
origini agordine.
Quella giovane donna era mia madre e di quel ragazzo io ero fratello
germano o, come si diceva una volta con termini meno eleganti ma forse più
efficaci, fratello di secondo letto.
Lo zio Mario, quello che abitava nel paesino dell’agordino, mi aveva
raccontato più volte di quando Giulio, così si chiamava il ragazzo, lo
era andato a trovare fin lassù partendo con la bicicletta dal paesino
della bassa padana, ove abitava, distante più di duecento chilometri.
Il viaggio era lungo e faticoso, ma non a tal punto da inibire
l’esuberanza di un giovane poco più che ventenne. Così, inforcata la
bicicletta, e lasciato alle spalle il paesino, Giulio aveva imboccato la
strada per Padova, fino ad arrivare a costeggiare i Colli Euganei, che
sembravano lì apposta per annunciare l’arrivo alle montagne, anche se
ancora lontane. Ma la bici macinava chilometri e le gambe avevano ancora
la forza per spingere sui pedali, alimentate dalla passione giovanile e
dal desiderio di vedere la strada cominciare a salire per portarlo a
raggiungere quel piccolo paesino sul fianco della montagna dove avrebbe
trovato facce familiari e calda accoglienza.
Lui quel viaggio già lo aveva intrapreso l’anno precedente per questo
ben conosceva la strada che lo avrebbe atteso. Sapeva che, lasciata la
pianura, la salita verso Feltre sarebbe stata breve e poi che lo avrebbe
atteso ancora il piano, a lato del letto del fiume Piave.
Le montagne incombenti sulla valle gli avrebbero dato la carica, anche se
non ne sapeva esattamente spiegare la ragione. Ma così stavano le cose e
lui era certo che, quando avrebbe imboccato la valle agordina, si sarebbe
dimenticato della fatica accumulata nelle gambe durante le lunghe ore di
pedalata.
Avrebbe potuto annusare e respirare quei profumi così intensi che tanto
gli piacevano e che si alternavano ai lati della strada: quello del fieno
appena tagliato, quello del legname della segheria, quello della resina
dei boschi, del fumo delle stufe a legna e altri ancora.
E ad Agordo si sarebbe sentito improvvisamente come a casa; avrebbe
appoggiato la bicicletta a fianco della fontana per bere e rinfrescarsi,
in quella piazza circondata da quelle montagne imponenti che tanto gli
piacevano.
Sarebbero rimasti, a quel punto, solo pochi chilometri: il breve strappo
in salita da Taibòn a Listolade, ancora un po’ di falsopiano fino ad
Avoscan, poi gli ultimi pochi chilometri, quelli sì in salita, per
giungere a Pecol di San Tomaso. Ma la salita gli era nota e sapeva come
affrontarla; conosceva i tratti nei quali sarebbe riuscito a rifiatare e
quelli nei quali c’era solo da spingere a fondo. Avrebbe dovuto
stringere i denti su per i Rui, lungo i quali la pendenza era costante,
poi avrebbe rifiatato al Piàn de la Siéga, ma da lì la strada già
sarebbe stata un po’ meno ripida fino ad arrivare alla Costa de Mèz. Da
quel punto avrebbe già scorto le prime case del paese di Pecol sul
costone della montagna di fronte. Da lì un tratto in falsopiano, nel
quale recuperare il respiro e dare tregua alle gambe, lo avrebbe portato
al caratteristico ponticello coperto. Si ricordava bene del ponticello,
tutto realizzato in legno e con la copertura, sul modello di quello del
famoso ponte degli Alpini a Bassano del Grappa.
Avrebbe sentito il rumore delle assi di legno sotto il peso della
bicicletta, come un segnale di preavviso che la fatica stava per volgere
al termine. Infatti, dopo il ponte, solo un chilometro di salita lo
avrebbe separato dalla piazzetta del paese, dove la sua fatica di ore e
ore avrebbe avuto fine. E fu così che lo zio Mario lo vide arrivare,
oramai a pomeriggio inoltrato, sudato e affaticato, ma col sorriso
raggiante di chi ha raggiunto il desiderato obiettivo.
Sì, lo zio me lo aveva raccontato più volte quell’episodio, e, avevo
notato, con il volto sorridente di chi parla di una persona cui si è
legati da profondo affetto.
E si ricordava anche molto bene di come, uno dei vecchi del paese che
stava sulla piazza a chiacchierare assieme agli altri compari, avesse
guardato Giulio appoggiare la bicicletta al muro e, avendo riconosciuto in
lui il ragazzo visto l’anno prima, gli avesse detto: “T’es
qua tì, vècio”.
Lo aveva chiamato “vècio”
e non “bòcia”, come di
norma fanno gli anziani coi giovani e in quel “vècio”
c’era tutto il rispetto e la simpatia per quel giovane arrivato da chissà
quanto lontano, con la sua bicicletta e un bagaglio fatto solo di
entusiasmo.
Gabriele
Villa
Ferrara,
13 novembre 2003
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