Il battesimo della solitudine
di
Francesco Cinti
Una
domenica di dicembre, un cielo azzurro colore del mare, una valle bianca,
nella quale luci e ombre danzano, come in un gioco magico, imprevedibile:
la Val Cimoliana, capolavoro di semplicità e bellezza, si estende placida
e isolata tra le alture che circondano Cimolais, piccolo paesino nelle
alpi Carniche.
Quel giorno, io e Marco, decidemmo di farle visita. La vecchia signora ci
aspettava, pronta a parlarci e a mostrarsi a noi
attraverso le sue storie.
Arrivati nei pressi di Longarone,
seguiamo la statale che da qui, passando per Erto, ci conduce a Cimolais.
Dopo poco siamo catapultati di fronte alla strapiombante e tetra Diga del
Vajont.
Un'atmosfera di morte e rancore stringe come in un cappio queste montagne
disegnate dall’opera incessante dell’acqua e dei venti. Finalmente
arriviamo.
Da subito la strada, che come un torrente taglia la valle nella sua
lunghezza, si presenta stretta e contorta, lievemente innevata.
La seguiamo. Di fronte a noi un spettacolo senza parole, la Val Cimoliana
si presenta in tutta la sua maestosità.
L’atmosfera di tranquillità ti rende euforico, la sua solitudine densa
di mistero, ti spinge ad addentrarti e scoprirla.
Una solitudine, che ti permette il contatto intimo con una natura
selvaggia, incontaminata, dove l’orologio sembra aver fermato la sua
corsa.
Camminando, la nostra immaginazione percorre la roccia nuda che si innalza
verticale sopra le nostre teste e in essa, traccia infiniti percorsi, come
fossimo scultori pronti ad estrarre da essa un’opera d’arte.
Immersi in questo mondo fantastico, ci dirigiamo verso il torrente, lo
guadiamo addentrandoci nel bosco.
Ci fermiamo ad ascoltare.
Le voci della natura ci trasmettono emozione, colori, odori, rumori,
silenzio improvviso, tutto contribuisce a far volare lontano la nostra
fantasia. Tanti
ricordi affiorano alla mente, la avvolgono e me la rubano.
Vicino a me il mio amico Marco,
un amico vero, la cui semplicità gli permette di capire il
significato delle cose che in quei momenti magici lo circondano. Nei suo
occhi, una luce intensa, calda, come quella del sole, interprete di
emozioni, idee per il futuro, tutto come se fosse scritto sul libro, il
libro dell’amicizia.
Il nostro viaggio continua, l’obiettivo che ci eravamo preposti, il
Campanile di Val Montanaia, non riusciamo a raggiungerlo. Ci accontentiamo
di arrivare al rifugio Pordenone, punto strategico per le spedizioni
alpinistiche.
La nostra escursione, prosegue tra parole, risate, ricordi che spesso
ritornano all’amico “Gabri” rimasto a casa, ma soprattutto silenzio.
Un mare immenso di emozioni ti percorre il cuore, un cielo blu infinito ti
sovrasta.
Arrivati al Pordenone, sostiamo. Il tempo di mangiare un boccone tra
qualche battuta e subito l’occhio cade sulla mappa della
valle.
Iniziamo a studiarla, a leggere i nomi dei monti che la compongono, una
scacchiera disegnata ad opera d’arte.
Decidiamo di rientrare, il cammino è abbastanza lungo, le ore di luce
ancora poche.
Soprattutto volevamo vedere Erto prima che il sole si coricasse oltre
l’orizzonte.
Sulla strada del ritorno, incontriamo due alpinisti che cercavano di
accumulare ghiaia sulla strada ghiacciata, così da poter dare slancio
alla loro auto, priva di catene.
Con loro, un signore del posto, abbastanza alto, mani forti e rugose, che
come libri ne narravano la sua storia.
Ci fermiamo ad aiutarli.
Tolti dall’impiccio, iniziamo una piacevole conversazione, scoprimmo che
volevano salire il campanile, ma il terrore di non riuscir a tornare a
casa, causa strada ghiacciata, li aveva fatti desistere.
Ci offrirono di andare a bere “un’ombra” con loro, garbatamente
rifiutammo, volevamo continuare a gustarci in armonia gli ultimi passi
nella valle. Così non fece il nostro amico autoctono che subito accettò.
Riprendemmo la macchina, direzione Erto.
La curiosità, nata leggendo i libri di Mauro Corona e conoscendo la
storia della diga, ci spingeva a conoscere questo paese. Arrivati,
sembrava di essere nel deserto, coprifuoco, nessuno per la strada, nessuno
nelle osterie.
Un’atmosfera di cupa malinconia lo avvolgeva, un senso di tristezza mi
strinse il cuore.
Con Marco decidemmo di visitare la parte vecchia del paese. Molte case
abbandonate nella fretta, ora diroccate.
Sui muri, ancora si leggeva l’orgoglio della gente che le aveva
costruite, amate e dopo l’immane tragedia, abbandonate. Prima
di partire, ci fermammo a bere un calice in un’osteria del paese.
Un brindisi, una stretta di mano virtuale, che contribuiva ad unire la
nostra amicizia.
Poche anime la vivevano, a uno di loro chiedemmo dove si trovava
l’osteria il “Gallo Cedrone”, non seppe aiutarci.
Era giunta l’ora di rientrare.
Ripartimmo, non senza rimpianto, per i posti visitati, per l’atmosfera
che regnava.
In macchina, iniziammo a parlare, scambiandoci idee, impressioni, ricordi.
Il battesimo della solitudine, offertoci dalla valle, era un pallido
ricordo.
La tranquillità, aveva ormai lasciato il posto alla frenesia delle auto
veloci che correvano lungo la strada del ritorno.
Francesco Cinti
Ferrara, gennaio 2005 |