… ai piedi del Nanga Parbat con Maria Beatrice Bonilauri
a cura di
Gabriele Villa
Piccola
presentazione
Beatrice
l’abbiamo conosciuta nell’anno 2000, come allieva del corso di
alpinismo della Sezione di Ferrara del Club Alpino, un po’ timorosa, ma
carica di passione per la montagna.
Quella passione l’ha portata a continuare l’attività anche dopo il
corso, inserendosi in quel gruppo di amici che amava allegramente
definirsi “i picchiatelli” e che andava in giro sia d’estate che
d’inverno per praticare la montagna in tutte le sue attività:
ciaspolate sulla neve, cascate ghiacciate, arrampicate in roccia, vie
ferrate ed escursioni di ogni tipo.
Nonostante qualche malanno fisico l’abbia tormentata, Beatrice non ha
mollato e la sua passione, unita all’esperienza accumulata, l’ha
portata a svolgere compiti didattici come Accompagnatrice al Corso di
Escursionismo Avanzato della Sezione di Ferrara, oltre che attività di
Direttrice di gite estive ed invernali (conosciute come ciaspolate).
Ancora in ambito sezionale, nel
2003 ha
accettato di entrare a
far parte della Commissione Culturale dando un contributo fondamentale in
creatività, ideando la serie di serate-incontro con personaggi della
montagna e dell’esplorazione, denominata “Inseguendo
i profili” ed aprendo successivamente un proficuo canale di
collaborazione con il Trento Film Festival per l’organizzazione di
serate di filmati di montagna.
La sua passione l’ha “indirizzata” anche nell’ambito del lavoro,
portandola prima ad “emigrare” a Rovereto per un’esperienza
lavorativa in un’azienda specializzata in capi d’abbigliamento per la
montagna e l’alpinismo, successivamente, una volta rientrata a Ferrara,
ad impegnarsi (forte anche di quell’esperienza acquisita) nella gestione
del negozio specializzato in “cose per la montagna”, chiamato Alpmania.
Breve
premessa introduttiva
Fu
nella primavera del 2006 che Beatrice ci disse che avrebbe realizzato un
suo grande desiderio: partecipare ad una spedizione che l’avrebbe
portata al campo base del Nanga Parbat, una fra le più famose delle
quattordici cime di oltre
8000 metri
.
Subito ci
prenotammo per “un’intervista” per il nostro intraigiarùn, la quale, ma ancora non lo sapevamo, avrebbe
avuto un iter assai “tormentato”.
Infatti, quando ci facemmo avanti dopo il suo rientro Beatrice prima ci
disse che “doveva riordinare le
idee” dopo quel viaggio così fuori dall’ordinario;
successivamente ci disse di attendere perché “doveva
riordinare le tante fotografie”, infine, concordato che sarebbe
stato un incontro nel quale lei avrebbe parlato a ruota libera e noi
trascritto semplicemente, abbiamo rimandato di mese in mese, perché “tanto
basta trovarci un pomeriggio in negozio e l’intervista è fatta…”.
Erano le ultime parole famose?
Forse sì, tanto che l’intervista (ci piace chiamarla così anche se è
stata una semplice ed “appassionata” chiacchierata) è stata
realizzata domenica 27 aprile
2008, in
auto, mentre Beatrice
guidava nel viaggio di andata e di ritorno da Trento per andare a
visionare filmati
del Film
Festival.
Beatrice guidava e raccontava la sua esperienza in terre pakistane, io
seduto al suo fianco scrivevo munito di carta e penna, Rita Vassalli,
nostra compagna di viaggio, seduta dietro, si inseriva con domande curiose
che ravvivavano il racconto di Beatrice.
Questo diario di spedizione è stato trascritto, così come è stato
raccolto, nella sua spontanea semplicità, nella cronaca arricchita di
considerazioni e aneddoti personali, anche nel suo “disordine”, quando
flash e sensazioni si sono inserite durante il racconto.
Così ci è piaciuto:
semplice, spontaneo, appassionato. Così ve lo proponiamo.
La
prima domanda che faccio a Beatrice è se l’idea di andare al Nanga
Parbat è la conseguenza della sua conoscenza con Maurizio Giordani.
Prima
di arrivare a prendere questa decisione c’è tutto un “viaggio”
precedente, cominciato da
quando avevo letto di Hermann Buhl ed ero rimasta suggestionata dalla sua
figura.
Quando Giordani parlò di Nanga Parbat c’era anche la voglia di andare a
vedere ciò che aveva visto ed esplorato Buhl, ovviamente non in alto,
come alpinista, ma come ambiente.
Ancora oggi è un impegno fare
la
Karakorum Highway
con i pulmini, prova a pensare a quando erano andati per primi, a
piedi, in esplorazione.
Ci sono punti in
cui fare quella strada c’è da “stringere le chiappe” e c’è da
dire che siamo stati fortunati perchè non aveva piovuto nei giorni
precedenti, altrimenti il rischio sarebbe quintuplicato per la peggiore
condizione delle strade.
Avendo letto di Hermann Buhl e di chi aveva scritto di lui, la proposta
del Nanga Parbat ne divenne per me una logica conseguenza.
Chiedo
quali erano le caratteristiche della spedizione a cui ha partecipato.
Il nostro era un trekking e comprendeva anche la possibilità di una
salita ad una cima di
6000
metri
se ci fossero state le condizioni (ma non ci furono).
Era presto come
stagione e quindi non c’erano altre spedizioni in giro.
Era maggio 2006 e le spedizioni alpinistiche iniziano a giugno.
Il trekking partiva dagli
ultimi paesini ad alta quota versante Sud verso la parete Rupal poi verso
Ovest, verso il Diamir, ma non siamo riusciti a passare il Passo Mazeno (
5.350 metri
circa) per la troppa neve e i portatori non erano attrezzati in maniera
adeguata, troppo rischioso per loro.
Però so che
hai avuto problemi intestinali durante la spedizione…
Ho
preso subito il virus intestinale, appena ho aperto il portello
dell’aereo
- dice ridendo divertita poi, facendosi seria, continua -
No… dev’essere stato successivamente mangiando lungo la strada.
Non
avevamo medico nel gruppo per cui si prendevano antibiotici e si andava
avanti.
Non è che avessi alternative, se non quella di rinunciare al trekking.
Sapendo che i fastidi durano due o tre giorni e poi passano, ho stretto i
denti ed ho proseguito.
Per me sono stati quattro giorni e devo dire che sono stati i più
difficili.
Suggerisco
che lei racconti la cronaca della spedizione, così come la ricorda ed è
un invito che viene raccolto volentieri e lo si vede dai frequenti sorrisi
che le si aprono sul viso quando tornano alle mente visioni o ricordi
particolari
1°
e 2° giorno
Arrivo a Islamabad e trasferimento a Chilas, 17 ore di pulmino,
(temperatura a Ferrara 18°, temperatura a Islamabad 43°, umidità 85%).
Arrivo alle ore
23 a
Chilas, considerando che sono
partita alle 9 da Ferrara il giorno prima, sono state 38 ore di non
stop. Impossibile
dormire durante il viaggio, troppe cose da vedere …

3°
giorno
Abbiamo lasciato il fiume Indo ed ora costeggiamo l’impetuoso torrente
Hunza,incontriamo
diverse frane.
La strada si fa
sempre più stretta, l’attenzione nostra è al massimo, la distanza tra
il pneumatico e la sponda è non più di
30 centimetri
tra buche e sassi,
l’attenzione del guidatore? Beh… intanto mentre guida si accende una
sigaretta, si direbbe che è rilassato.
Abbiamo
fatto altre 6 ore di pullmino e 4 ore di jeep, fino all’ultimo paese
raggiungibile con un mezzo meccanico, Tarashing
2800 metri
.
E’
sera e piove… però al mattino
dopo, che giornata!
4°
giorno
Siamo partiti a piedi dal paese a
2.900
metri
di quota, per paesini e saliscendi, stabiliamo il primo campo, al Campo Base
Herrligkoffer sul versante Rupal del Nanga Parbat dove inizia il Bazhiri
Glacier a
3510
metri
.
Il
tempo a fine giornata è molto bigio, e non si vede granché della parete
Rupal.
Durante la notte
si sentono fragori e boati di slavine provenire dalla parete della
montagna, la temperatura è vicino allo zero o poco più. Ho cominciato
quella notte ad avvertire i primi disturbi e di conseguenza mangiare e
bere (molto poco) e… bagno (tanto).
La colazione del mattino era preparata da due ragazzi che facevano i
cuochi e lo avevano fatto anche in altre spedizioni precedenti.
Il piatto base della colazione era una frittata di uova o in alternativa
un’altra frittata di uova leggermente diversa.
Per fortuna c’era il the locale ed anche qualche biscotto e marmellata.
Non mancava mai il Ciapati che è la loro “piadina romagnola”:
all’inizio la trovi ottima, dopo qualche giorno non ne puoi più.
Mi sforzavo di mangiare e bere, dovevo avere energie per camminare, ma
dopo immancabilmente rigettavo ed andavo di corpo.
Sinceramente
non so come ho fatto ad arrivare al Campo Mazeno, e devo dire che i
compagni di spedizione mi hanno battuto le mani perché non ci credevano
che ce l’avrei fatta.
Una guida era venuta a prenderci a Islamabad e fuori dall’ultimo paese
abbiamo incontrato una guida locale con tanto di fucile a tracolla.

Chiedo
a Beatrice qual era la consistenza della loro spedizione.
Eravamo
in 9, Giordani compreso, con 8 asinelli al seguito e 15 portatori con
guida locale.
Intanto
l’auto corre veloce verso Trento e Beatrice è impegnata alla guida,
anche se la sua mente (e lo si vede dall’espressione sorridente del
volto) è andata molto, ma molto lontano …
5°
giorno
Secondo giorno di camminata.
Smontare i campi, su è giù
per le morene, per un totale di 6 o 7 ore di cammino , rimontare i campi,
giusto in tempo prima che inizi la solita pioggia pomeridiana o neve,
dipende…
Dopo le morene siamo arrivati in una vallettina, Campo base Rupal
3500
metri
circa, il campo è vicino ad un ricovero di animali, ma anche di
uomini.
Non che si
capisse molto qual era la differenza fra i ricoveri e nemmeno quella fra
gli odori degli uomini e quella fra gli odori degli animali.
Appena montato il campo è iniziato a piovere ed ha piovuto durante tutta
la notte.
Tieni conto che io ancora dovevo uscire spesso dalla tenda per i motivi
che ben conosci …
Alla sera si mangiava minestrone piccante, l’immancabile Ciapati, alcune
volte carne, e poi si integrava con cibo europeo, pastasciutta o salumi e
formaggi preparati nei bidoni da Giordani,
in modo da alternare un po’ al cibo Pakistano.
6°
giorno
Finalmente era arrivato il sole e si potè vedere la parete del Nanga
Parbat.
Non ti rendi conto della grandezza di quelle montagne perché tutto
intorno è grande e vasto.
Giordani ci disse dov’era il percorso seguito da Hermann Buhl, sulla
cresta a destra anche se da qui non era molto visibile, poi la salita dei
fratelli Reinhold e Gunther Messner al centro e il suo tentativo alla
parete ovest a sinistra.
Ci siamo fermati un giorno in questo campo, per acclimatarci meglio,
mentre gli altri facevano un giro su una cimetta vicina, risultata poi non
così tanto vicina e non raggiunta.
Io rimasi a riposare ed a recuperare un po’ di energie.
Non avevo ancora grossi miglioramenti, ma almeno non avevo la febbre.
Provai a chiacchierare con i portatori, mentre assistevo ad una partita di
“lippa” dei ragazzi del gruppo, ma… scarso inglese… scarso
risultato.
7° giorno
Quarto giorno di camminata: siamo ripartiti e man mano che salivo di quota
stavo meglio, già gli odori intensi caratteristici del Pakistan, non mi
disturbavano più.
L’ambiente qui è severo, brullo e grandioso, con sbalzi di temperatura
così forti che passavi nel giro di mezz’ora da un sole scottante a 30°
ad un bel vento forte con nevicata, poi ritornava il sole. I torrenti
impetuosi erano il vero pericolo tecnico, se mancavi il sasso su cui
mettere il piede potevi ritrovarti a fondo valle ridotto in poltiglia.
Questo è anche il fascino e la bellezza di quei luoghi e ti rendi conto
che sei un semplice moscerino… si è isolati dal mondo e bisogna stare
attenti a non farsi male, prendere una semplice storta diventerebbe un
grave problema.
Successivamente abbiamo camminato su un terreno inconsistente, i somarelli
rischiavano di cadere e ruzzolare.
 
I
portatori intanto hanno cominciato a raccogliere legna per scaldarsi in
alta quota e cucinare (per la nostra cucina invece avevamo le bombole a
gas, riscaldamento zero).
Comunque noi eravamo dei signori in quanto eravamo dotati di tenda e sacco
a pelo, ma i portatori sopra alle loro teste avevano solo un telo e sotto
quello facevano di tutto, scaldarsi, cucinare, affumicarsi… e un panno
per la notte. Ai
piedi portavano delle semplici scarpe da tennis.
Proseguiamo,
passiamo vicino ad un masso enorme, Shagri un luogo particolare che fa
venire voglia di rimanere lì in silenzio, in meditazione…
Costeggiamo il fiume Rupal Gah e superiamo l’alpeggio di Latobah.
Al termine della
giornata arriviamo al campo a
4200 metri
ed alla sera
nevischia, mentre io comincio a star meglio.
Forse
è l’acqua dei torrenti che è più pulita, o anche l’antibiotico che
comincia a fare effetto, però mangio ancora pochissimo.
Continuo a scrivere il diario di spedizione, ma mi accorgo che è partito
un flash su altri ricordi legati alle città pakistane ed ai loro
abitanti…
L’atmosfera di quei luoghi
è indescrivibile: gli uomini sono tutti vestiti uguale, le donne velate,
coloratissime, non vogliono essere fotografate.
I
taxi sono degli APE grandi con il posto a sedere, c’è un gran caos, un
traffico disordinato, e tutti vanno forte.
Si vedono camion carichi stracolmi di cocomeri.
Se c’è un’auto stai sicuro che sono su in dieci.
Nei posti più sperduti trovi
la persona che va a piedi e non capisci che cosa ci faccia lì, da dove
arrivi e dove vada... nel nulla!
Nei pochi pascoli nelle oasi lungo i fiumi o negli altipiani, si vedono
pochi cavalli, hanno bisogno di buona erba e li troveremo solo sul
versante Nord.
Da
Tarashing, attraversando gli ultimi paesini a piedi, vedi tutto diverso
rispetto alle città e noti una gran simbiosi tra l’ambiente gli uomini
e gli animali.
Camminando sei a contatto diretto con la realtà dei luoghi, ti fermano ti
fanno domande, c’è chi ti ferma perché ha bisogno di cure mediche, ma
purtroppo non riusciamo ad aiutarlo.
Nei campi lavorano solo le donne, gli uomini si dedicano al commercio o
fanno lavori artigianali.
Vedi tanti bambini in giro, tanti, tanti.
La pelle scura e i vestiti con colori sgargianti fanno risaltare gli occhi
grandi e scuri.
Sono state costruite
diverse scuole nuove anche nei paesini più lontani, i bambini sono
simpaticissimi per loro è un occasione per mettere in pratica l’inglese
scolastico.

Ma
ecco subito la mente di Beatrice ritornare al trekking …
A
4200
metri
capisci veramente di essere in quota, sei a contatto con la neve e i
ghiacci.
Per non avere il
respiro affannoso ci si muove un po’ più lentamente.
La notte l’ho trascorsa bene, un ottimo sonno, mi sento riposata anche
se deboluccia.
Il sole, l’aria buona, pulita e frizzante, … sarà una bella giornata.
Smontiamo il campo, ci vuole sempre più di un ora, i portatori dividono
il peso sugli asinelli e mi accorgo dell’ottima tecnica che usano per
stirare i pantaloni.
E’ una giornata stupenda, attorno picchi, ghiacciai, meringhe enormi,
sospese nel vuoto pronte a cadere chissà quando…
 
Visto
la bella giornata e nonostante la quota il passo è buono, si decide di
saltare un campo.
La neve è più del previsto e probabilmente non si riuscirà a valicare
il Passo, recuperando un giorno, si può eventualmente pensare ad un giro
alternativo.
Gli asinelli iniziano a sprofondare nella neve, è troppo pericoloso per
loro andare oltre, rischiano di spezzarsi una gamba, e se fosse successo
mi sarei sentita proprio una merdaccia.
Non si può azzoppare un asino solo per il nostro ludico piacere di
proseguire il cammino.
Per fortuna decidono di fermare gli asini su una zona
con pietrisco, i portatori si caricano il peso sulle spalle e si prosegue
fino al Campo Mazeno alto
4950 metri
.
Tra i portatori
alcuni erano attrezzati altri no, diversi giovani studenti che nella pausa
scolastica facevano questo lavoro per guadagnare qualche soldo.
Arrivo al campo che non né ho più… adesso c’è da montare la tenda e
bloccarla molto bene, qui il vento si può alzare improvviso e con
raffiche violente.
Gli uomini montano la tenda mensa, alcuni bruciano la legna e preparano il
“Ciapati” sulle piastre.
 
Appena
cala il sole la temperatura inizia ad abbassarsi notevolmente.
Mi metto tutte le maglie che ho, il piumino, sovrapantaloni, berretto e
vado alla tenda mensa. Ho fame!!! Incredibile, mi è ritornato
l’appetito e quella sera a
4950
metri
mi faccio un piatto enorme di penne alla bolognese con parmigiano, e
come dice qualcuno… vamo là!
Dall’inizio
del trekking ho una tenda tutta per me e quando non stai bene dici “per
fortuna”, ma adesso ho un po’ di timore, l’avrò ancorata bene?
E se si alza il vento?
Io sono la più leggera di tutto il gruppo, potrebbe portare via la tenda
e anche me?
Mi addormento con questi pensieri dentro al mio sacco a pelo.
I portatori sono sempre al riparo del loro unico telone, sono attaccati
l’uno altro con un po’ di fuoco e tanto fumo.
9°
giorno
Al
mattino c’èra tutto ghiacciato in tenda (penso che la temperatura fosse
sui -15° / -20° C).
Alla sera si era deciso, visto le condizioni, di scendere velocemente ed
invece che nel versante Diamir, saremmo andati a nord nel versante Rakhiot
tramite una scorazzata di jeep e poi naturalmente a piedi.
Mentre gli altri salivano al passo a
5350 metri
per dare un’occhiata, io rimasi al campo a controllare
l’asciugatura delle tende e che venisse smontato e portato via tutto
velocemente.
Anche se avevo mangiato
le penne alla bolognese dovevo tenermi le forze per il rientro a tappe
forzate facendo il percorso di salita di due giorni, in uno unico in
discesa.
10°
giorno
A sera siamo di nuovo a Tarashing, stanchi per le parecchie ore di
camminata di quei giorni, sporchi e al buio (non c’è luce se non quella
del sole o le candele) ci facciamo la prima doccia dopo tanti giorni sotto
un filo d’acqua in uno sgabuzzino che tutto sembrava fuorché un bagno,
ma mi sembra di rinascere.
11° giorno
Al mattino una mega jeep ha caricato tutti e tutto, stretti stretti siamo
ridiscesi nel caldo infuocato della vallata sottostante, ti senti la pelle
bruciare…
Chissà quanti gradi c’erano… tanti!
Cambio di mezzi, disposti su tre jeep piccole iniziamo a risalire una
strada che si fa sempre più stretta, adesso capisco il perché delle tre
jeep più piccole!
Impressionante la strada, il baratro, le jeep con i vetri rotti, come
guida l’autista, non so cosa mi spaventa di più, tutto sembra appeso al
nulla.
La
strada è stata costruita tutta a mano, le pareti sono di un agglomerato
gigantesco e inconsistente, non vorrei esserci con un acquazzone… per
fortuna anche oggi è sereno.
 
Da
qui è partito Hermann Buhl, dentro al rifugio è tappezzato di foto, di
lui e di altri alpinisti, sicuramente c’è un’impronta occidentale
nell’insieme, il gestore o qualcuno di loro è stato in Europa, ma non
riesco a capire le loro risposte.
Dal mio bungalow davanti a me la parete Nord del Nanga Parbat, la parete
Rakhiot.
12°
giorno
Al mattino ci troviamo una decina di uomini armati di fucile, siamo vicini
al confine con
la
Cina
, parlano con il gestore, qualcuno tenta di fotografarli, ma viene
subito fermato, cioè… è bastato uno sguardo.
Dopo un
parlottare con la nostra guida, possiamo partire per avvicinarci il più
possibile al Campo base e per ammirare la parete Rakhiot.
Non abbiamo molto tempo, tra l’altro ci sono un paio di persone che non
stanno troppo bene.
Mi avvicino il più possibile, ormai il trekking sta finendo…
Al rientro, al rifugio c’è un anziano che ci aspetta, apre due tre
fazzoletti pieni di minerali e pietre con rubini incastonati. Forse non
sono preziosi, ma sono molto belli, quarzo nero e quarzo bianco
nello stesso sasso... ne ho
preso uno.
Lui
va per i monti, alla base del Nanga Parbat in certe zone particolari,
trova e vende queste pietre per qualche dollaro, dice “fin che ne avrò
le forze”.
Nel pomeriggio riscendiamo in jeep la mitica strada che naturalmente
consiglio a tutti quelli che hanno intenzioni suicide. Le jeep sono
aperte, entra polvere ovunque e con il caldo della valle abbiamo un
aspetto di fantasmi.
E’ sera tardi quando siamo di nuovo a Chilas, stanchi, affamati e
sporchi.
L’avventura
del trekking sta per volgere al termine ed il racconto diventa più
scarno, quasi telegrafico, come se fossero state solo le montagne a dare
significato al tutto.
13°
giorno
A Chilas ci dividiamo.
Alcuni rimangono con Giordani e aspetteranno a Gilgit altri che arrivano
dall’Italia per tentare la cima del Muztagh Ata
7546 metri
.
In
cinque rientriamo, seguono due giorni di pulmini e jeep per tornare ad
Islamabad.
14°giorno
Chissà che cavolo c’era nel minestrone che ci hanno dato a cena
nell’albergo, uno di noi sta molto male, ha la febbre. Vuole andare
all’ospedale, lo sconsigliamo, ma non c’è niente da fare. Ritorna più
avvilito di prima…dice “E’ uno scenario sconvolgente”, meglio
morire qui…
Facciamo un giro di un paio d’ore in centro, ma è troppo caldo,
rientriamo all’albergo.
Il volo, il mattino seguente, parte molto presto, alle 4,00 siamo già in
piedi.
Non amo i viaggi in aereo, essere lassù in un barattolino di lamiera non
mi rassicura, chissà perché ci hanno fatto tenere i finestrini chiusi.
Dopo tanti spazi aperti trovarmi nello spazio angusto di un aereo è
massacrante.
Dopo otto ore e mezza ero di nuovo in Italia.
E quali
sono le sensazioni che si provano una volta a casa dopo un’avventura del
genere?
Non
sono stati i primi giorni a casa che mi hanno dato il piacere
dell’esperienza.
Una volta arrivata la prima cosa che ho pensato è stata: che bello
l’acqua corrente in casa!
Poi le cose più banali… le semplici comodità a cui oramai siamo
abituati.
Fin quando sei immersa in questo viaggio, hai grande attenzione per tutto
ciò che ti sta intorno che non hai tempo e modo di pensare ed elaborare
l’esperienza.
Poi con il tempo… immagini… odori… emozioni… arrivano improvvisi e
mi riportano ancora in quei luoghi così diversi dal nostro mondo-modo
europeo… tanto che dopo due anni sono ancora qui con voi a
raccontarlo… e allora verrebbe voglia di ripartire…

ai
piedi del Nanga Parbat con Maria Beatrice Bonilauri
a
cura di Gabriele Villa
Note
raccolte in
viaggio per e da Trento – Domenica 27 aprile 2008
Ultime integrazioni – Domenica 31 agosto 2008
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