Una vita lunga 50 parole
di
Mauro Mazzetti
Fanculo
gli amici che conosci da una vita. Fanculo gli amici che ti conoscono da
una vita. Fanculo Amedeo, che mi ha detto, in una pizzeria sulle alture di
Genova, poco prima di partire: “Tu non arriverai mai in vetta
all’Aconcagua, sei troppo introspettivo”. Questo
sto pensando, mentre arranco lungo gli interminabili e sterminati valloni
che conducono al campo base.
Veramente tutto era cominciato
parecchi mesi prima, quando Armando cercava di mettere insieme una
spedizione per festeggiare gli ottant’anni del Cai di Genova Sestri
Ponente. Occasione ghiotta, per lui già salitore di due ottomila,
rigorosamente in stile alpino e senza ossigeno. Occasione ghiotta anche
per gli altri, stante la sponsorizzazione della sezione CAI e della
annessa Scuola di alpinismo. Le palanche sono sempre palanche, anche e
soprattutto a Genova.
Fatto sta che la squadra si forma in fretta, perché gli altri non possono
e/o non vogliono: Armando, Alessandro (che scalpita e proviene anche lui
da un numero imprecisato di spedizioni, numero comunque tendente ad
infinito), Mauro (che sono io). Mauro, giunto alla soglia dei
cinquant’anni senza che mai fosse stato sfiorato dall’idea di
partecipare ad una spedizione extraeuropea. Viaggi tanti, quelli sì, ma
mai sulle montagne extraeuropee. Sdoganato
dalla famiglia, comincio gli allenamenti assieme agli altri altri due.
"Aconcagua"
A-con-ca-gua… A-con-ca-gua…
A-con-ca-gua… Il ritmo della corsa scandisce le sillabe di questo nome.
Aymarà, quechua, chissà quale altra lingua ha battezzato la montagna più
alta delle Americhe; Sentinella di pietra, oppure Sentinella bianca,
oppure sogno, mito, progetto, illusione, speranza. E ferie, le ferie che
utilizzerò per volare in Argentina. Per scalare l’Aconcagua a quasi
7000 metri, io che non sono mai salito al di sopra del Monte Bianco.
La corsa prosegue costante, con un ritmo lento che mi fa sembrare fermo di
fronte agli altri due, lontani e superiori mille miglia per esperienza,
abitudine alla sofferenza ed all’alta quota. Il respiro si fa più
affannoso: raggiungo in debito di ossigeno la “vetta” di Punta Martin
(1000 metri di altezza, 1000 metri netti di dislivello dal mare di
Genova). Armando ed Alessandro se la ridono, mentre già stanno galoppando
a ritroso sul sentiero.
Spero di divertirmi in spedizione. Questo è stato l’augurio che ha
formulato uno dei dirigenti CAI. E “che bella demùa” (che bel
divertimento) sarà il nostro tormentone durante i 12 giorni di salita. Il
mio mentore veneto mi ha scritto: prudenza e determinazione, questi sono
gli ingredienti vincenti per una spedizione. Prudenza e determinazione
saranno le insegne della mia personale bandiera alpinistica, altro che
“in hoc signo vinces”! Passata l’età dell’oro, devo amministrarmi
e gestirmi al meglio, fisicamente e psicologicamente. Comunque vada, sarà
una bella avventura, un andare verso. Verso che cosa? L’incognito, la
fatica, la paura, l’orgoglio, l’entusiasmo, la delusione, la gioia?
Intanto sarà un viaggio, un mettere fuori il piede (ex-pedition, tratto
sempre dal mentore n.d.r.). Pablo Neruda ha scritto che chi non viaggia è
destinato ad asciugarsi, a rinsecchire, a morire. Allora partiamo. Magari
la spedizione sarà dentro di me. Comunque vada, questo viaggio sarà
prevalentemente interiore e servirà a conoscermi meglio. Porto un
taccuino da viaggiatore dell’Ottocento, un taccuino che riempirò con il
diario di bordo e con le mie considerazioni. Sono abituato a scrivere, ed
a scrivere molto, forse abbastanza bene. Mi do un compito: al mio ritorno
scriverò qualcosa su di me e su questa esperienza, ma usando non più di
50 parole.
La spedizione avrà un antipasto ed un digestivo extra-andinistico. Saremo
infatti ospiti della potente associazione che raccoglie i Liguri nel
mondo. Saremo così accolti con tutti gli onori a Santiago del Cile ed a
Buenos Aires (anche a Genova c’è una strada che si chiama corso Buenos
Aires. Noi genovesi la storpiamo in “corso Buone Saire”, prigionieri
della nostra còcina cantilenante e autoreferenziale n.d.r.). In queste
righe parleremo solo della spedizione, e non della parte turistica.
La notte in volo è passata tra acrobazie dormitorie, lasciando la riga
rossa dell’alba a guardia del nuovo continente. L’hotel a cinque
stelle ci fa già rimpiangere le comodità che abbandoneremo domani.
Intanto i preparativi vanno avanti, alla ricerca del peso perfetto dei
bidoni, bidoni che caricheremo sui muli. Si cammina, spersi in un
paesaggio che diventa man mano sempre più lunare, sempre più desertico,
sempre più grande. Sono superfici e volumi che non conosciamo, che non
ri-conosciamo, che ci sono estranei, incapaci come siamo di pensare e di
concepire distanze aliene, quasi fossero il frutto di viaggi
extraterrestri, piuttosto che extraeuropei. Mi perdo nel fotografare e nel
guardare. I lontani ed altissimi crinali delle creste scendono ripidi e
franosi fino al fondovalle, dove serpeggia incerta ed a volte nascosta la
traccia che stiamo seguendo. Poi il pendio si impenna nuovamente, partendo
dall’altra sponda dell’irruente fiume fangoso – sarebbe quasi meglio
definirlo “polveroso”, se non fosse per l’assurdità concettuale.
Nuove morene conducono verso l’alto, attraversando canali detritici e
pietrosi che riportano lo sguardo in direzione di altre creste. E’ una
sinfonia di colori. O forse sarebbe meglio dire una cacofonia. Le rocce di
basalto nero balzano fuori dal rosso mattone delle pietraie che
attraversiamo, intervallate da terreni gialli di zolfo, secchi e spaccati
dove passa il sentiero. Radi cespugli verdi si alternano a cuscini di
fiori di un ocra accecante. Ogni tanto, quasi a ricordarci che siamo in
alta montagna, attraversiamo nevai abbacinanti nel sole a piombo del primo
pomeriggio. A sera ci prepariamo per una notte all’addiaccio, sotto le
stelle e senza tenda. Ci sdraiamo nei sacchi a pelo sotto un cielo dove non troviamo la Stella polare ma la Croce
del sud, dove giochiamo a riconoscere le costellazioni che occupano, in
questa notte purissima, posti differenti da quelli che siamo abituati a
vedere nel nostro firmamento. L’avvicinamento
al campo base di Plaza Argentina meriterebbe un racconto a sé, penso
mentre guadagniamo lentamente quota ed acclimatamento. All’improvviso
l’Aconcagua ci mostra bonaria la parete che abbiamo intenzione di
salire; provo a scherzarci sopra, paragonandola alla parete nord del Gran
Paradiso. Ma subito gli altri due mi zittiscono, ricordandomi che la vetta
del Granpa è 200 metri più in basso del campo base dell’Aconcagua.

Ad eccezione delle frequenti uscite notturne diuretiche dalla tenda, le
notti passano tranquille. Ogni tanto l’Aconcagua ci ricorda che è lì,
inviandoci messaggi ventosi che fanno applaudire i teli della tenda.
Saliamo verso quota 5100, campo 1. E’ il mio primo contatto con i
penitentes, strane ed originali formazioni ghiacciate che sembra traggano
il nome dalla forma, simile a persone in preghiera. Siamo l’unica
spedizione a partire prima delle 8 del mattino. Sulle nostre Alpi è
inconcepibile muoversi con così tanto sole e così tardi; qui invece le
cose sono diverse, perché tutti i gruppi si mettono in marcia non prima
delle 11. Sotto un cielo di piombo ed un sole implacabile prendiamo quota,
superando una prima barriera di penitentes, un ripido pendio di terra
friabile ed una grigia cresta pietrosa. Da lì il percorso risale la valle
desertica e bellissima, alternando falsipiani morenici, laghetti
ghiacciati, balze sabbiose, pendii nevosi. Oltrepasso la quota del Monte
Bianco – ormai mi sono lasciato indietro e sotto tutti i quattromila
delle Alpi – fino al campo 1, dove montiamo la tenda. Da oggi comincia
il su e giù fra campo base e campi alti.

Attraverso
il labirinto dei "penitentes"
E’ Natale. Per una scelta comune, non abbiamo portato nessuno strumento
di comunicazione; niente satellitare, telefoni triband e roaming, computer
portatili, internet e posta elettronica. Quindi, nessuna comunicazione con
l’altro mondo; la faccenda pesa un po’, perché tutti “teniamo
famiglia”. Cerchiamo di anestetizzare la cosa con la preparazione di un
albero natalizio, che costruiamo in orizzontale con le pietre su di una
striscia di terreno polveroso. Sembra un bel lavoro, tanto è vero che
molti altri inquilini del campo base ci fanno i complimenti. Natale
è stato un giorno importante, nell’economia della spedizione e per i
successivi risvolti della situazione. Abbiamo parlato a lungo,
sinceramente e tranquillamente, sgombrando il campo da ipocrisie,
reticenze, titubanze.
La mia
spedizione personale prende un’altra piega, peraltro già ipotizzata ben
prima della partenza, almeno da parte mia. E’ maturata così durante gli
allenamenti comuni a Genova; è maturata così durante i tre giorni di
avvicinamento al campo base; è maturata così negli andirivieni tra il
campo base ed i campi alti. Lo sapevo fin dall’inizio, che per me
sarebbe stata doppiamente dura. Dura una prima volta, perché è la prima
esperienza extraeuropea, e l’esperienza, come si dice, è la somma degli
errori commessi. Dura una seconda volta, perché io sono comunque
l’anello debole della catena. Armando ed Alessandro possiedono una
preparazione fisica e mentale abbondantemente al di sopra della media,
quella media peraltro abbastanza alta a cui appartengo anch’io. Sono
partito da Genova consapevole del marcato distacco che ci divideva già
all’origine. D’altra parte, nell’idea iniziale del progetto, assieme
a qualcun altro ero destinato alla via normale, mentre gli altri due
avrebbero scalato la via dei Polacchi. Poi le varie defezioni hanno
determinato il mio spostamento nella cordata di punta (l’unica!). Tutto
questo, studiato sulla carta, ha poi avuto una logica, razionale e
naturale evoluzione durante l’avvicinamento. Una cordata a tre sulla
diretta dei Polacchi potrebbe essere pericolosa, aumentando i rischi a
discapito della sicurezza. Sarei troppo lento, relativamente ad Armando e
ad Alessandro, anche se non in senso assoluto. A me la scelta. Non ci sto
molto a pensare: la cordata veloce ed esperta sulla via più importante,
io “normale” sul Falsos de los Polachos, lungo traverso in quota che
porta dal campo 2 alla via “normale” e di lì in vetta.

Ho ormai perso di vista Armando ed Alessandro (e questa non è una novità).
Sto arrancando sul pendio ghiaioso, combattendo la solita battaglia
personale e contestuale con agorafobia e claustrofobia. E’ strano ma è
vero. I grandi spazi mi avvolgono e mi metabolizzano, mentre la maschera
antivento mi comprime il viso e mi limita nel respiro, che passa
pericolosamente attraverso la bocca aperta. Sono ormai a 6000 m, campo 2.
Comunque sia, il fisico risponde bene alla quota, per me inusuale. Sono
lucido, perfettamente lucido. Di fianco alla tendina del campo faccio
qualche esercizio logico-matematico, che ho riportato sul mio prezioso
taccuino, tanto per verificare come frulla il cervello. Il cervello
funziona bene (adesso, seduto, davanti alla tastiera del computer, potrei
estremizzare e dire che funzionava “fin troppo bene”). E proprio
questo funzionamento così preciso, come un meccanismo oliato a dovere e
perfettamente manutenzionato, mi fa decidere. Tutto
sommato, non me la sento di salire da solo – o meglio di provare a
salire da solo – i 900 metri che mi separano dalla vetta. Non mi sento
pronto, dal punto di vista mentale, per una prestazione di questo tipo.
Forse me ne pentirò, perché la vetta è sempre la vetta, coronamento dei
sacrifici e delle fatiche di chi va in montagna. Non c’è una
quasi-vetta. E’ come la numerazione binaria: 0 oppure 1, sì oppure no,
ON oppure OFF, su oppure giù. Sono quasi sicuro che me ne pentirò, ma
oggi, qui al campo 2, prendo una decisione importante. Importante per me,
si intende, per la mia vita ed il rispetto che ho per me stesso. E che
voglio continuare ad avere.
Ho tutto il tempo di scendere i 2000 metri di dislivello che mi separano
dal campo base. Li posso scendere al chiaro, in sicurezza e tranquillità,
senza rischiare più di tanto. Cuore polmoni testa stanno bene; ripercorro
mentalmente tutte le tappe della spedizione, mentre in lontananza, piccolo
e colorato, il campo 1 occhieggia a 5100 m. Lo raggiungo e lo oltrepasso,
salutando vecchi e nuovi amici di tutte le nazionalità. Attraverso ancora
una volta l’ennesimo pendio costellato di penitentes e punto sulla
macchiolina colorata del campo base. Quando lo raggiungo, il nostro cuoco
Andrès mi chiede preoccupato se sto bene, se ho mal di testa, se deve
chiamare l’elicottero per farmi trasportare all’ospedale, se ho
bisogno di qualcosa in attesa del soccorso. Gli rispondo che la testa sta
bene, che l’elicottero non serve, che ho solo bisogno di jugo de fruta e
di una sopa. Nada mas.
Let it be.
50 parole. Questo era stato l’obiettivo che mi ero dato, per
spiegare me a me stesso. Un limite abbondantemente superato. Magari in
futuro lo rispetterò. Magari durante un’altra spedizione.
Mauro Mazzetti
Genova,
gennaio 2006
Nota
tecnica. Armando Antola (I.N.A. e C.A.A.I.) ed Alessandro Bianchi (I.N.A.)
hanno raggiunto la vetta dell’Aconcagua il 29 dicembre 2005. Hanno
impiegato 7 ore per salire i 900 metri di dislivello della “Diretta dei
Polacchi”, variante argentina, superando pendii nivo-glaciali fino a 65°
e 150 metri circa di roccette fino al III grado.
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