L'aspirante geologo e
l'alpinista emergente
ovvero
una mattina di novembre a casa da Franco Miotto
a cura di
Gabriele Villa
con la collaborazione di Fabrizio Ardizzoni
Cera una
volta uno studente ferrarese di geologia che una sera d’estate di tanti
anni fa si trovò al rifugio Bianchet, sulle montagne dello Schiara,
sopra Belluno, per svolgere una missione di campionamenti di rocce e
dei rilievi cartografici al
fine di completare la sua tesi di laurea.
Era un po’ preoccupato per il giro lo aspettava il giorno dopo tra
quelle montagne aspre e poco frequentate, ma una persona del luogo, che
si trovava lì per caso in visita al gestore suo amico, si offrì di
accompagnarlo perché quelle montagne le conosceva bene.
Lo studente fu assai contento di accettare e pure il montanaro ne fu
felice perché a lui piaceva condurre i “foresti” negli angoli più
sperduti di quelle che considerava le “sue” montagne.
Potrebbe cominciare così la storia che voglio raccontare, nata da
quell’incontro che avvenne nel lontano 1975, i cui protagonisti erano il
mio amico e compagno di scuola all’Istituto Tecnico, Fabrizio Ardizzoni,
allora laureando in Geologia, e il forte alpinista bellunese Franco
Miotto, che in seguito sarebbe divenuto “La forza della natura”, come
recita il titolo del libro biografico scritto da Luisa Mandrino e
pubblicato nel 2002 da CDA & Vivalda Editori.
Me ne aveva parlato più volte di quell’incontro, il mio amico Fabrizio,
ricordando con piacere la giornata passata tra le crode assieme a quello
che sarebbe diventato uno dei più forti alpinisti dolomitici, Accademico
del CAI e leggendario “uomo dei viàz”, sempre dicendo quanto gli sarebbe
piaciuto rinverdirne il ricordo rivedendo e rincontrando Franco Miotto.
La vita a volte è strana e regala occasioni inaspettate che si
realizzano mediante imprevisti intrecci di casualità, conoscenze inaspettate,
incontri fortuiti e allo stesso tempo fortunati.
Così è successo a me che ho incontrato personalmente Franco Miotto a una
sua serata ad Imola e di cui ho successivamente approfondito la
conoscenza in un paio di casuali incontri per il tramite del comune
amico Marco Conte, giornalista bellunese, vicino di casa di Miotto e mio
compagno di scrittura ai tempi di intraisassblog.
Da cosa nasce cosa e così ecco balenare l’idea di creare i presupposti
per rinnovare quel lontano incontro e, avuti i numeri di telefono
proprio da Marco Conte, ecco subito Fabrizio telefonare a Franco Miotto
per concordare un incontro a casa sua, anzi un “rincontro”, tra il
giovane aspirante geologo, oggi sessantaduenne, e il montanaro
bellunese, settantotto anni ben portati, ancora un entusiasmo
invidiabile, tanti ricordi vivi e intensi da raccontare, una miniera di
informazioni, esperienze, che ci ha travolto come una valanga, per
quattro intensissime ore, in una bella mattina di novembre 2009.
Ci viene incontro sul vialetto di casa Franco Miotto e ci accoglie
sorridendo cordiale, facendoci accomodare in casa, nella saletta
studiolo con il fuoco acceso nel camino in angolo e il suo cagnetto Chico,
(l’erede del mitico Scopetta, il cane che sfidava le aquile) abbaia
insistente verso di noi, ma non è aggressivo, sembra piuttosto
intimorito e voler chiamare in aiuto il suo padrone quasi a dire “Vieni
a darmi una mano che qua c’è gente che non ho mai visto…”.
Alla fine, rincuorato da Franco si dispone sulla poltrona a sonnecchiare
davanti al fuoco del camino.
“Alòra ti te sì ‘l geologo” – dice Miotto rivolgendosi a Fabrizio.
Ovvio che il punto di partenza di questa chiacchierata debba iniziare da quel lontano incontro e subito ecco spuntare una fotografia in
bianco e nero che Fabrizio ha portato con sé: c’è lui stesso, c’è Franco
Miotto e pure un certo Ubaldo, ospite del rifugio Bianchet proprio in quei
giorni.
Franco si ricorda bene di Ubaldo e subito torna alla memoria il primo
dei ricordi, perché lui con quell’Ubaldo ci era andato anche a scalare
la Gusèla del Vescovà.
“L’era alto. El sarà stà uno e novanta. - comincia a raccontare Miotto –
Quando siamo arrivati alla base della Gusèla mi sono accorto che aveva
due scarponi vecchissimi con le punte ritorte in alto.
No te pòl far la
Gusèla con quèla roba lì, gli ho detto, poi mi sono accorto che era
alto, ma aveva i piedi piccoli, portava un 42, proprio come me e così
gli ho fatto provare i miei scarponi e abbiamo visto che gli andavano
bene, allora mi sono legato la corda e sono andato su.
Te sa che la Gusèla la è quaranta metri, così arivà su che ho butà zò i
scarponi e le vegnù su con quelli.
Così abbiamo scalato la Gusèla del
Vescovà in due con un solo paio di scarponi, i miei.”
L’atmosfera si fa subito allegra, mentre quasi a integrazione e suggello
arriva sul tavolo una bottiglia di vino bianco e tre bicchieri che
vengono subito riempiti, mentre Fabrizio tira fuori il suo “Quaderno di
campagna” di geologo laureando e comincia a leggere le pagine relative a quel giro per "crode, cenge e loppe".
[ 7
settembre 1975.
Ci siamo alzati di buon ora.
La nostra meta di oggi è il monte Coro,
visto che il signor Miotto si è gentilmente offerto di farci da guida,
anche perché è interessato a questo itinerario come cacciatore o meglio,
noto ed inafferrabile bracconiere della zona.
Così verso le 8,30 ci mettiamo in marcia sul sentiero n. 503 che porta
verso la Gusèla e dopo un breve tratto nel bosco, sulla destra, troviamo
il segnavia sbiadito n. 537 per la casera Castellazzo ed il monte Coro.
Con non poche difficoltà (il sentiero è stato infatti cancellato da un
paio di slavine proprio nella parte iniziale), riusciamo ad arrivare ad
una incisione, detta il Boràl dell’Aip (è un budello stretto che scende
dalla Costa del Castellazzo, ben visibile in tutta la sua lunghezza
dalla mulattiera di forcella Lavaretta. Siamo saliti appunto lungo
questo intaglio, sino al punto di intersezione con il sentiero n.537, a
quota 1550 (vedi I.G.M.). Quivi arrivati si prosegue su, sentiero, ben
segnato, sino alla radura di Casera del Castellazzo, dove, a causa delle
ortiche, lo si perde (memorizzare che passa sopra i ruderi della vecchia
casera).
Dimenticavo un particolare!
Prima di arrivare alla casera, in una zona con diversi abeti abbattuti
dalla neve, uno stupendo esemplare di capriolo è sgusciato sotto di noi
verso il fitto del bosco, mandando in visibilio il Miotto.
Questo uomo è un personaggio nel vero senso della parola; la prima cosa
che impressiona di lui è la grande sicurezza che ha nell’andar per monti
e che sa infondere anche a chi gli sta accanto.
Conosce la montagna sotto tutti gli aspetti, i frutti, dal mirtillo
rosso al ribes, le tane, i giacigli e i passaggi dei camosci.
E’ operaio
all’ENEL, sindacalista attivo in prima linea della CGIL; tutto il suo
tempo libero lo dedica al girovagar per crode, trascurando così, a sua
detta, anche la famiglia.
Nonostante siano solo tre o quattro anni che arrampica , avendo superato la
quarantina, si è messo già in luce con vie estreme invernali sul Burel,
nel gruppo dello Schiara.
Ha una tempra e un fisico eccezionali, non un filo di grasso superfluo,
mani e dita grosse dalle quali si deve sprigionare una forza
incredibile.
Un carattere gioviale e semplice, suona l’armonica a bocca,
è abile nell’intarsio del legno e nella forgia dell’acciaio (tutta
l’attrezzatura da arrampicata l’ha costruita con le sue mani, tranne i
moschettoni), è un buon conoscitore di carte topografiche.
Dopo la casera il sentiero si inerpica sul lato destro di una vallecola
le cui pareti sono costituite da “Calcare del Vajont”. Salendo affiora
un conglomerato quaternario i cui elementi costitutivi sono
esclusivamente della formazione dianzi citata. Si potrebbe trattare di
una vecchia conoide cementata oppure di una morena stadiale depositata
dal ghiacciaio che ha modellato la Val Vescovà e quelle limitrofe.
Arriviamo così sulla cresta che fa da spartiacque fra le valli Vescovà e
Ru da Molin, della quale a tratti fra le nuvole, riusciamo a vederne la
testata. Pure visibili sono le Pale Magre, la Gusèla del Vescovà, la
cima della Schiara, la cima del Burel. Dopo una breve sosta, fra
mirtilli e stelle alpine, seguendo il sentiero segnato, abbiamo percorso
un breve tratto in cresta per poi scendere ad una dolina.
Da qui ci siamo diretti verso gli affioramenti del Coro che appaiono
sottilmente stratificati anche visti da lontano.
Con grande stupore abbiamo rilevato che su questa montagna affiora la
serie sino al Biancone (Cretacico inferiore), mentre la carta geologica
segna la cima in Dogger.
Evidentemente i rilevatori dell’epoca hanno usato il binocolo e non le
gambe!!!
Sotto queste paretine abbiamo accolto il suggerimento di Miotto:
“roseghemo un bocòn”.
Sempre costeggiando la base di questo affioramento ci siamo diretti
verso ovest, sino al punto in cui vi sono grosse lastre staccatesi dalle
pareti e da qui giù in verticale ad un prato. Tagliando questo verso
sinistra si sbuca sulla leggendaria “cengia del Re del Coro”. E’ questa
una arditissima via suborizzontale che cinge il Coro ad una quota di
circa 1800 metri e che per gran parte si affaccia, con un salto di
800-1000 metri, sulla Val Vescovà, il resto è rivolto sulla val Cordevole
e Ru da Molin. E’ indubbiamente un posto poco raccomandabile per i non
esperti e raramente frequentato. Camosci e Miotto a parte, siamo di
certi i primi , dopo tanto tempo, a transitare in questi luoghi.
La cengia è abbastanza larga nel primo tratto in roccia, poi bruscamente
ci si trova di fronte ad un passaggio non più largo di una spanna. Il
primo a passare è il Miotto, seguito dal sottoscritto.
All’andata sono transitato abbastanza agilmente, in quanto le nuvole
impedivano la valutazione di quello che avevo sotto i piedi. A seguire è
passato Daniele e poi con somma titubanza il Gianni.
Questo passaggio è costituito da due gradini, quello superiore in
roccia, non più largo di 20 cm. E quello più basso, sempre in roccia, ma
con dei ciuffi di erba sopra che danno l’impressione di un qualcosa
cedevole sotto carico. L’abbiamo definito “l’ultima loppa” prima di
affidarci alla sua tenuta.
Subito più avanti in una nicchia rocciosa ho
visto una stella alpina enorme. E chi vuoi che se la venga a prendere mi
son detto!
I camosci e anche Miotto non ne sono interessati.
Qui noi ci siamo
fermati, mentre la nostra guida si è fatta tutto il perimetro della
cengia, venendo a prenderci dopo una ventina di minuti. ]
Franco
sorride divertito a questo passaggio del racconto di Fabrizio e lo
interrompe:
"Sì, sì, me lo ricordo questo e quando sono tornato indietro vi ho
sentito che dicevate 'ma dove è andato quello là'?".
Fabrizio si unisce alla risata e pare che ricordino cose successe la
settimana prima e non trentacinque anni fa.
Poi riprende la lettura del "Quaderno di campagna".
[
Abbiamo così avuto il tempo, nell’andirivieni delle nuvole, di
contemplare sotto di noi la val Cordevole, la Val Vescovà, la Talvena e
gran parte delle Dolomiti Bellunesi.
Il ritorno sull’ultima loppa è stato molto più sofferto che non
all’andata, complice il diradarsi delle nuvole con relativa vista sotto.
Un sospiro di sollievo ha caratterizzato il nostro ritorno sulla terra,
nella fattispecie una radura solcata da una traccia di sentiero. Poco
dopo si è ritrovato il sentiero con segnavia per casera Castellazzo.
Quivi giunti, la pioggia, che pur con cielo minaccioso per tutta
l’escursione, ci aveva risparmiato, decide di battezzarci tutti a
dovere. Finalmente vedo il Miotto coprirsi con una maglietta e un
berretto. Ma al posto della mantellina sfodera un ombrello stile
pastore. Al rifugio, lui asciutto, noi madidi di sudore. Da imitare in
futuro!
Arrivati al punto in cui il sentiero interseca il Boràl dell’Aip, non
scendiamo per il budello, bensì seguendo sempre la traccia rossa del
segnavia. Subito dopo il Boràl il sentiero si fa mulattiera sino ad
incontrare la prima slavina.
Qui il Miotto decide di prendere a sinistra in verticale attraverso il
bosco, io un po’ scettico resto indeciso se proseguire valicando la
slavina. Alla fine mi aggrego con gli altri e devo dire, per fortuna,
perché anche questa volta il Signore dei Viaz ha avuto ragione. Infatti,
scendendo per il bosco spostandoci a destra, in un baleno si arriva al
Bianchet. Giusto il tempo di togliere gli abiti fradici di dosso e giù a
cena in una tavolata unica con tutti gli ospiti del rifugio. Fra
spaghetti al gorgonzola e fiaschi de vin si conclude anche questa
indimenticabile giornata. ]
La lettura delle pagine del "Quaderno di campagna" di Fabrizio termina,
ma non crediate che le interruzioni di Miotto si siano limitate a quella
che ho descritto.
No, assolutamente, perchè lui è come una pentola a pressione sul fuoco,
ascolta, medita, elabora, ribolle e poi deve "scaricare" la
pressione, come una valvola di sicurezza
che sbuffa vapore.
La sua carica vitale è intatta e la sua vita, le sue emozioni, le
sofferenze, le delusioni, gli entusiasmi sono tutti lì con lui pronti a
trovare agganci per venire allo scoperto, per essere raccontati e
rivissuti.
Quel ricordo evocato da Fabrizio con la lettura del loro incontro del
1975 sembra averlo riportato indietro nel tempo e ora è come se Franco volesse
ripercorrere le tappe della sua vita, raccontarle ai due
inaspettati ospiti che gli si sono materializzati davanti arrivando dalla
lontana Pianura Padana, dal mondo della nebbia e dell'ovunque piatto.
Io lo ascolto e scrivo quasi tutto quello che racconta, anche le cose
che sarà bene non riportare quando si parla di politica per esempio, e
alla fine avrò riempito ben sei pagine del mio "quadernone" degli
appunti.
Non c'è un filo logico predeterminato nel racconto di Miotto in quelle
ore della nostra visita a casa sua, ma alla fine ci si rende conto che
il filo conduttore sono le emozioni che l'uomo ha vissuto nella sua
vita, quel filo che le evoca, le concatena, le richiama, pronte a
essere raccontate per riviverle nuovamente.
Fabrizio, ogni tanto, prova ad arginarlo, soprattutto quando parla di
scalate e di alpinismo, al contrario di me che invece sono molto attento
quando il discorso va alle "crode", ben conoscendone le storie e a volte
anche qualche retroscena, avendo letto, e ricordandolo bene, il libro
"La forza della natura".
Come quando parla di non essere stato mai trattato bene dall'ambiente
del Cai:
"Ho fatto salite che nessuno aveva fatto prima, ma per 'loro' ero sempre
il bracconiere e il comunista. Eppure l'evoluzione del montanaro è
passata attraverso il cambio da contadino, a cacciatore e poi alpinista
e guida alpina."
O ancora della fine del suo sodalizio alpinistico con Riccardo Bee,
l'amico e compagno delle più importanti imprese alpinistiche, di scalate
che hanno fatto la fama della cordata Miotto-Bee:
"Ci siamo lasciati male con Riccardo, ma qualcuno si è messo di
mezzo..."
La tristezza gli vela lo sguardo, ma reagisce prontamente e torna a
parlare di imprese, al "buono" che lo ha legato al suo storico compagno
di cordata:
"Mi avevano indirizzato verso la parete sud del Pelmo dopo che l'avevano
consigliata anche a Reinhold Messner che l'aveva giudicata fattibile con
l'impiego di 150 chiodi a pressione che lui però non voleva usare.
Mi sono fidato e abbiamo fatto un tentativo da cui però siamo tornati
indietro rischiando tanto.
Allora sono andato sul Pelmetto e ho studiato la parete col cannocchiale
e ho trovato la soluzione più a destra di dove mi avevano detto e siamo
tornati, come dei poveracci e d'inverno e in una settimana siamo andati
fuori e senza nemmeno piantare un solo chiodo a pressione.
Avevo visto che era tutto giallo, quindi niente acqua, allora ho fatto i
chiodi per le fessurette prendendo acciaio armonico, realizzato alette
perchè si potessero appoggiare alla roccia, fatto zigrinature per aumentare l'attrito.
Battevo dentro queste "fogliette", riuscendo a piantarle anche nelle
fessure cieche e montavo sulle staffe senza neanche respirare e andavo
su a prendere gli appigli buoni.
Riccardo li toglieva, ma la zigrinatura resisteva, magari si muovevano,
ma molti non si toglievano."
Butta fuori tutto d'un fiato e si sente nel vibrare della voce tutto
l'orgoglio dell'alpinista che aveva impegnato non solo la capacità
tecnica e la forza fisica, ma anche lo studio della montagna e la
capacità di intuirne i segreti e di realizzare personalmente gli artifici tecnici per
trovare la soluzione etica, senza cedere a compromessi.
Io gongolo al racconto, mentre Fabrizio tenta di inserirsi per "deviare"
il discorso verso argomenti a lui più familiari, ed eccolo presto
accontentato perchè si finisce col parlare del Parco delle Dolomiti
Bellunesi e
Franco ci fa vedere un bel servizio realizzato per la televisione ed
andato in onda su Geo & Geo.
C'è una lunga intervista proprio a lui che illustra i percorsi dei Viàz
che ha scoperto ai tempi delle sue cacce ai camosci e immagini "aeree"
realizzate con una piccola telecamera applicata alla gamba dello stesso
Miotto mentre percorre il più conosciuto e ardito di quei percorsi sospesi tra
terra e cielo.
Da qui a
finire al libro il passo è breve e anche alla sua autrice, Luisa
Mandrino:
"Avevo detto no a tanti, ma a lei alla fine ho detto sì e lei è stata
bravissima: ha descritto l'uomo ancora prima dell'alpinista. Credo che
nemmeno un famigliare stretto avrebbero potuto fare meglio di quanto ha
saputo fare lei."
Ci racconta di lei, Franco, e del bel rapporto di amicizia che è nato da
quella collaborazione.
"Pensate che ha voluto far nascere il figlio il 16 febbraio che è il
giorno del mio compleanno".
Si commuove nel raccontarci questo e ancora ci dice entusiasta:
"Ah... voi dovreste conoscerla. E' una gran persona - poi ci pensa un
po' e continua - ma ve la faccio conoscere subito, perchè adesso la
chiamo al telefono".
Neanche il tempo da parte nostra di aprire bocca che già il cellulare di
Miotto è in funzione e quando Luisa Mandrino risponde si salutano
calorosamente e poi, dopo un po' lo si sente dire "ti passo un mio amico
geologo".
Ecco allora Fabrizio con il telefono in mano parlare, un po' impacciato,
con l'autrice del libro e poi, poco dopo, tocca a me, mentre Miotto
appare contento di avere favorito quel contatto, così estemporaneo e
fuori da ogni schema.
Il tempo
vola, ma il torrente Miotto, continua a scorrere impetuoso e solo ogni
tanto Fabrizio riesce a dirottarlo su argomenti di suo interesse, come
la famosa panca intarsiata citata nel libro, anche se, a dire il vero,
lì nella casa non solo la panca è intarsiata, ma tutti gli arredi li ha
realizzati lo stesso Miotto, dai lampadari, alle panche, alle spalliere
dei letti, dando sfogo alla sua creatività e alla sua notevole abilità
di artigiano del legno.
Si rende quindi d'obbligo un giro nella casa e la frase che più spesso
ricorre di stanza in stanza è sempre quella:
"Tutt mi. Qua ho fatt tutt mi. Progettazione, disegni, mobili, intarsi,
decorazioni".
Fabrizio intanto fotografa la panca, non gli pare vero di vederla dal
vivo, dopo averne appreso dal libro, mentre Franco spiega che di
cassapanca ne vuole fare un'altra perchè ora ha ingrandito il suo
laboratorio e intende migliorare la sua manualità e conclude: "So fare
tutti i mestieri, anche il calzolaio. Mi è sempre piaciuta la
manualità".
Poi torniamo nello studiolo e Franco versa ancora il vino bianco nei bicchieri
e riprende il suo dialogare.
Si va dalla rivoluzione cubana, al suo paese di nascita Malles, in Val
Venosta:
"Sono nato là perchè mio padre non aveva voluto che mia madre prendesse
la tessera del Partito Fascista e siccome era Carabiniere, dopo una
settimana si trovò trasferito là da Belluno dove si erano sposati".
Poi si passa dal ministro Tremonti "che è cadorino"
dice Miotto con una punta di critica, ad Alemanno che è
andato a fare il campanile di Val Montanaia con Mauro Corona "ma
all'attacco c'è andato con l'elicottero", infine allo stesso Corona "che
è una simpatica canaglia, ma con le sue cose ha fatto studiare i figli
fino alla laurea".
Ci racconta anche di quando ha avuto occasione di conoscere
personalmente PierLuigi Bersani e gli disse "quando c'eri tu in
televisione durante la campagna elettorale mi dicevo che potevo stare
tranquillo che avresti saputo stenderli tutti". Se la ride Franco e
ricorda ancora che quando arrivarono ai saluti Bersani gli allungò la
mano e lui gli disse "no, voglio abbracciarti. Allora Bersani allargò
le braccia e io l'ho stretto forte. Pensa che mi sono arrivati dei
saluti da lui di recente, 'salutatemi l'alpinista che mi ha abbracciato
e mi ha rotto le costole' ".
Parla a
ruota libera oramai Franco Miotto, sembra proprio averci preso in
simpatia, e allora eccolo tirare fuori i suoi archivi con i ritagli dei
giornali che parlano delle sue imprese alpinistiche e il discorso non
può non andare a parare sullo Spiz di Lagunaz, alla famosa e discussa
via "dei bellunesi", ripetuta solo di recente a distanza di venticinque
anni dall'apertura.
"Avevano detto che non l'avevi fatta nemmeno tu perchè non erano
riusciti loro a ripeterla, vero?" - azzardo, ma la mia è una domanda
retorica perchè la storia la conosco bene.
"Come fai a saperlo?" - mi risponde un po' sorpreso.
"Te l'ho sentito dire a Imola alla tua serata e poi ho... studiato
sul sito internet intraisass che raccontava la storia della ripetizione
effettuata da Ivo Ferrari e Silvestro Stucchi nel 2004".
"L'hanno messa in dubbio in parecchi quella salita, dicevano che non
potevo essere passato di là...".
Miotto ci legge l'articolo del giornale che riporta le dichiarazioni di
Ivo Ferrari:
"Quella via non ha grado: 7° e A3 sono solo numeri. Quella è
un'avventura nel verticale, una via senza ritorno."
Legge l'articolo del giornale Franco Miotto, scorre le righe con enfasi
e passione e ad un certo punto la voce s'incrina, sembra perdere forza,
infine, si ferma e tace.
Si è commosso "la forza della natura" perchè gli è tornato
prepotentemente alla memoria il ricordo di quella rivincita per
interposta persona che Ferrari e Stucchi avevano permesso con la loro
ripetizione che cancellava ogni dubbio e restituiva tutto il valore a
quell'impresa che era stata ingiustamente dubitata.
E lui era là sotto la parete in quei due giorni e aveva portato pure una
bottiglia di vino per i festeggiamenti:
"Quando sono usciti dal traverso siamo saliti sulla strada e ho detto
"tutti a suonare il clacson delle auto'. C'erano tre generazioni di
alpinisti lì ad aspettare che rientrassero dalla via."
Un sorso di vino bianco aiuta a sciogliere quel groppo di emozione e poi
si riprende a parlare.
La mattina è oramai trascorsa, la moglie si è già fatta vedere per
annunciare che "tra un po' è pronto a tavola", ma Franco riprende
il filo del suo discorso.
"Ho
smesso con l'alpinismo dopo la tragica morte della mia figlia e sono
tornato alle origini, l'artigianato".
Un passaggio durissimo della vita di Franco Miotto, raccontato con
drammatica maestria nel libro di Luisa Mandrino, uno di quei momenti che
lasciano il segno e possono cambiare la vita di una persona.
"Dopo ho continuato ad andare per montagne, in zone impervie, mai
frequentate dagli escursionisti.
A sera mi facevo un letto di loppe e su quelle mi coricavo. Accendevo il
fuoco e lo osservavo.
Il fuoco è come la vita: all'inizio è vivo, irruento, poi si placa e
alla fine restano le braci, borbotta e ogni tanto fa uno scoppiettio. E'
allora che guardi le scie degli aerei, vedi le stelle e la mente
viaggia, pensi all'infinito e alle ragioni della vita. E' in quei
momenti che faccio dieci respiri e mi addormento".
Abbiamo ora davanti a noi un Franco Miotto che non t'aspetti, la sua
energia vitale sembra avere lasciato il posto alla riflessione
esistenziale e, quasi parlando a se stesso, prende a recitare
"L'infinito" di Giacomo Leopardi e lo recita tutto senza la minima
incertezza perchè lo conosce a memoria perfettamente.
"Ho letto tutto Leopardi - ci confessa - un poeta che mi
affascina, quello più vero."
Iniziamo,
infine, i preliminari dei saluti che passano attraverso la visita al suo
laboratorio da artigiano falegname e intarsiatore, all'illustrazione del
pezzo di orto e alberi da frutto in fondo al giardino dietro la sua casa
con vista sulla Schiara e le montagne che fanno da corona a Belluno, alla
macchina "elimina talpe" che ha inventato e realizzato lui stesso per
combattere i fastidiosi animaletti (le solve) che "le me
rovinava tuta l'erba del prà".
Ci avviciniamo all'auto e Franco ci accompagna con gli ultimi
scoppiettii del suo dialogare, con un rimprovero a chi
"i và lontàn a
cercare gloria alpinistica con tutte le bèle montagne che avèmo qua". Infine un ultimo saluto con un "verrei volentieri a trovarvi a Ferrara".
Un arrivederci che si realizzerà a ottobre quando Franco Miotto sarà
ospite della sezione del CAI.
La mattina seguente ricevo un sms da Fabrizio: "Stanotte non ho
dormito per l'emozione dell'incontro con Miotto".
Un messaggio che è una conferma della capacità peculiare di Franco
Miotto, quella di coinvolgere e di trasmettere emozioni.
Quelle stesse emozioni che ho riprovato io nel completare lo scrivere di questo racconto a
sette mesi di distanza dall'incontro con lui in quella fredda ma limpida
mattina di novembre.
Gabriele Villa
L'aspirante geologo e l'alpinista emergente
Limana (BL) 23 novembre 2009
Ferrara 14 luglio 2010
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