Sul Cerro Torre con Daniele
Chiappa e Giorgio Spreafico
a cura di
Gabriele Villa
Ci sono avvenimenti che
nascono in tempi inaspettati ed in modi inconsueti e magari si sviluppano
pure in maniera imprevista, ma gradita.
Questi che vi voglio raccontare cominciano il 6 dicembre con una e-mail
che mi arriva da Piacenza; è il mio amico Lucio Calderone che invia un Fw,
tutto scritto con caratteri in grassetto e i nomi in rosso, che recita:
Per l’appuntamento “Alpinisti e grandi montagne”, venerdì 15
dicembre “Cerro Torre Dance”, diario di una grande sfida rivissuta
trent’anni dopo. Daniele Chiappa,
accademico del CAI, uno dei protagonisti della scalata vittoriosa alla
parete ovest del Cerro Torre nel 1974, farà rivivere la più grande
impresa dei Ragni di Lecco in Patagonia.
Con la partecipazione straordinaria di Giorgio
Spreafico, autore di “Enigma Cerro Torre”, un libro che per la
prima volta indaga l’affascinante mistero del Grido di Pietra – il
Cerro Torre, la montagna più bella e difficile del mondo. Era il 1959
quando Cesare Maestri annunciò di avere salito la cima della Patagonia
considerata il simbolo dell’impossibile. Con lui l’austriaco Toni
Egger, morto durante la discesa. Mezzo secolo dopo, l’impresa – della
quale non esistono prove – è sempre più discussa in tutto il mondo. Ci
fu davvero? O i primi in vetta furono nel 1974 i Ragni di Lecco?
L’invito mi solletica: la Patagonia è la terra dei miei sogni di
alpinista, (sempre e solo sognati) il Cerro Torre una montagna conosciuta
(era il 1972) quando ancora ero una persona “normale”, cioè prima di
iniziare ad arrampicare. Ero andato a prendere la morosa all’uscita dal
lavoro e, nell’attesa, avevo dato una sbirciata nella vetrina della
cartolibreria Bovolenta; fui attratto da una copertina colorata: in primo
piano il volto di un uomo dai capelli neri, la barba ispida, sulla bocca
una smorfia e nel volto un’espressione corrucciata, quasi sofferente.
Subito dietro, in secondo piano e quasi a contrasto, un volto di donna,
capelli biondissimi, lunghi fino alle spalle, sguardo volitivo e un
accenno di sorriso sulle labbra dischiuse. Sopra, in neretto, due scritte
affiancate: “Fernanda e Cesare Maestri” – “Duemila metri della
nostra vita”. Senza nemmeno pensare entrai ed acquistai il libro: era il
racconto della spedizione “Campiglio ‘70” che aveva salito il Cerro
Torre usando il famigerato compressore.
Quella sera mangiai più in fretta del solito, perché volevo iniziare a
leggerlo subito e ne fui rapito a tal punto che era oramai notte fonda
quando chiusi il cartoncino della copertina sull’ultima pagina letta, e
sulle parole di Fernanda Maestri: “Continuerò a prendere
tranquillanti, continuerò a tremare ogni volta che squilla il telefono
quando lui è lontano, continuerò ad arrancare su e giù per i sentieri
che portano fin sotto le pareti. Ma i mesi e gli anni passeranno, le
stagioni torneranno. E se la vita continua diventerà vecchio”.
A farmi perdere gli ultimi dubbi ad affrontare il viaggio di 200
chilometri fino a Piacenza è una telefonata dei giorni successivi di Lucio:
“Se vieni nel pomeriggio puoi unirti a noi che andiamo a cena con gli
ospiti prima della serata”.
Proposta irrinunciabile, anche perché
è proprio a tavola che vengono fuori quei discorsi che nella serata
ufficiale non sempre si affrontano, o si possono avanzare domande per
entrare in dettagli umani e/o in aspetti particolari delle storie e dei
personaggi che le hanno vissute.
Il giorno dopo ero da Alpmania a comprare il libro “Enigma Cerro
Torre”, e dopo altri tre giorni lo avevo già letto, “bevuto” d’un
fiato in un incalzare appassionante, come da tempo non succedeva.
Così, venerdì 15, mi sono ritrovato a tavola con gli organizzatori della
serata e con gli ospiti: quattordici persone, per esigenze di spazio,
strette in una tavola dove normalmente si mangia in otto, ma quel po’ di
scomodità ha creato un’atmosfera ancora più confidenziale e assai
amichevole.
Un affabile e, in certi momenti appassionato, conversare di montagna, di
scalate, di questioni inerenti il Club Alpino, di problematiche delle
Scuole di Alpinismo, del rapporto a volte difficile tra Guide Alpine e
Istruttori del CAI, di volontariato: di tutto un po’, insomma, ma
soprattutto di “lui”.
Cerro Torre (Patagonia) – Il grido di pietra, “la montagna più
bella e più difficile del mondo”.
E’ una storia intricata quella del Cerro Torre, una di quelle che con
il
passare del tempo è andata assumendo i contorni della leggenda
fino a
sconfinare nella mitizzazione.
E’ la fine del 1959 quando tre uomini ai piedi della montagna “più
bella e più difficile del mondo” sono pronti ad attaccare per compierne
la prima ascensione.
Sono stati accompagnati fin là da quattro studenti che li hanno aiutati
nel trasporto dei materiali.
Una spedizione alpinistica povera, insomma, che già lì assume i contorni
dell’avventura romantico/eroica.
Salgono i difficili diedri iniziali fino ad un nevaio triangolare, poi
vanno verso destra in diagonale fino a raggiungere una forcella tra la
“loro” montagna e un’altra lì a fianco, altrettanto bella, ma più
piccola. Poi uno dei tre torna e scende da solo, perché lui non è in
grado di proseguire la scalata con gli altri due che sono tra i più forti
alpinisti in circolazione al momento. Ed è sempre lui che, cinque giorni
dopo, prima di abbandonare il luogo dando oramai per morti i compagni
sulla montagna, risale il ghiacciaio per verificare cosa sia una macchia
scura sulla neve che si vede in lontananza, e salvando così la vita al
superstite. Il non ritornato dalla montagna si chiama Toni Egger, il
salvatore si chiama Cesarino Fava, il supersite è Cesare Maestri.
Ed è quest’ultimo, raccolto sfinito e nemmeno in grado di reggersi in
piedi, che in seguito racconterà della salita alla cima, agevolata da
condizioni particolari della montagna; due giorni per salire, oltre a
quello già impiegato per arrivare al Colle della Conquista e due per
scendere fino a che una scarica di ghiaccio investe Toni Egger e lo
strappa dalla parete. Un bivacco penoso e un altro giorno di discesa fino
ad arrivare a venti metri dalla base e da qui cadere sulla neve
sottostante. La notizia della scalata fa il giro del mondo e dà inizio a
quella specie di “epopea“ del Cerro Torre che dura a tutt’oggi perché
il “grido di pietra” ha mantenuto intatto il suo fascino e la sua
capacità di attrazione nei confronti degli alpinisti più forti al mondo.
La salita del 1959 viene messa in seguito in dubbio da chi tenta il Cerro
Torre senza successo negli anni successivi: l’acquisita conoscenza della
montagna, le sue reali difficoltà, l’asprezza delle condizioni
ambientali, sembrerebbero in palese contrasto con il racconto di Cesare
Maestri, con quella salita di cui non ci sono prove documentali (la
macchina fotografica di Toni Egger non è mai stata ritrovata), né
testimoni oculari.
I dubbi sollevati fanno nascere una polemica che spinge Maestri a tornare
al Cerro Torre e lo fa nel 1970 con una spedizione trentina da lui stesso
organizzata e con il polemico e dissacrante utilizzo di un compressore con
cui fare i buchi per i chiodi a pressione e, ultima provocazione,
rinunciando alla salita finale del fungo ghiacciato, caratteristica
distintiva della montagna.
Ma i dubbi che quella scalata avrebbe dovuto sopire, si sono riaccesi
negli anni successivi ed ancora aumentati perchè in 47 anni il Cerro
Torre è stato salito più volte e ancora più volte tentato senza
successo, ma mentre varie scalate sono riuscite su tutti i versanti, gli
insuccessi si sono succeduti anche e soprattutto su quel versante nord che
Maestri racconta di avere salito con relativa facilità date le
particolari condizioni in cui si trovava la montagna, assieme a Toni
Egger, al primo tentativo, nel 1959. Avevano cominciato alcune cordate che
salendo il Cerro Egger ripercorrendo la linea di Maestri ed Egger fino al
Colle della Conquista avevano riferito di non avere trovato tracce di
passaggio se non solo fino a 300 metri da terra e così avevano confermato
altri scalatori che avevano tentato di ripetere la via del 1959.
Quelli che invece erano riusciti a salire fino alla vetta avevano riferito
di formazioni di ghiaccio formate dal vento per lo più inconsistenti e
questo anche nella stagione invernale o dopo lunghi periodi di freddo
intenso e ciò in palese contrasto con “la montagna trasformata in un
iceberg quasi facile da arrampicare” dichiarata e descritta da Cesare
Maestri. Dubbi che sono
ulteriormente aumentati con la scalata da nord (finalmente riuscita) di
fine 2005 ad opera di Ermanno Salvaterra, Rolando Garibotti e Alessandro
Beltrami, battezzata “El arca de los vientos” e dichiarata “ prima
salita” perché nessuna traccia di precedente passaggio è stata trovata
sulla parete.
Insomma un autentico rompicapo per chi volesse trovare una risposta
definitiva ai dubbi, proprio quello che ha cercato di fare Giorgio
Spreafico con il suo libro “Enigma Cerro Torre”.
Insomma, se i dubbi che si rincorrono ultimamente e visto che Maestri nel
1970 non ha calcato la cima ghiacciata del Cerro Torre per sua stessa
ammissione, il signore che sta seduto al tavolo alla mia sinistra e quasi
di fronte è quello che nel 1974, assieme a Casimiro Ferrari, Pino Negri e
Mario Conti ha calcato per la prima volta la cima della montagna
“impossibile”.
Nel libro “Cerro Torre – Parete Ovest”, Casimiro Ferrari, il capo di
quella spedizione alpinistica così lo descrive: “Daniele Chiappa, 23
anni, <ragno> dal 1971. Era il più giovane della spedizione, ma
aveva già fatto molte importanti ascensioni. E’ di temperamento onesto
e sincero e a volte mi capita di non essere d’accordo con lui, forse
anche perché abbiamo dieci anni di differenza, che non sono molti ma
contrassegnano comunque una diversa mentalità. Avevo in lui molta stima e
pensavo che sarebbe stato un ottimo elemento, perché univa alle capacità
alpinistiche una buona dose d’ambizione”. Ora è un cinquantacinquenne, con i capelli spennellati di bianco, così
come la barba, che dietro agli occhialini con montatura leggera muove due
occhi vivaci, ancora pieni di entusiasmo quando racconta dell’avventura
al Cerro Torre.
“Una delle cose che ricordo del Torre è la fame che ho patito.
Bestia, che fame! – dice con la tipica cadenza lombarda – Io non ho
fatto la guerra, ma là credo di avere patito quello che ho sentito
raccontare da quelli che l’hanno fatta. Per fortuna che c’erano le
pecore laggiù in Patagonia: quante che ne abbiamo mangiate! E per fortuna
che c’erano”.
Poi racconta di avere realizzato la sua proiezione in occasione della
ricorrenza dei trent’anni della salita e ne appare visibilmente
soddisfatto.
“Mi piace perché ci sono tutte le vecchie immagini di più di
trent’anni fa, ma le ho montate con le moderne tecniche digitali e ci ho
messo una colonna sonora altrettanto moderna e mi pare di avere ottenuto
proprio un bell’effetto. Dev’essere così perché hanno cominciato a
richiedermela da più parti ed ho fatto quaranta serate da allora. Questa
di stasera è la quarantunesima ed è la prima volta che esco dalla
Lombardia, anche se di poco”.
Gli chiedono se ritiene che sarebbe cambiata la sua vita se quella
loro salita fosse stata riconosciuta (da subito e fino in cima) come la
prima del Cerro Torre.
“Credo proprio di sì. – risponde con serenità in cui si
avverte tuttavia una punta di giustificato rammarico – Guarda com’è
cambiata quella di Lacedelli e Compagnoni dopo il K2, per esempio, vuoi
non pensare che sarebbe cambiato nulla solo per noi? Ma i Ragni non hanno
mai voluto spingere sull’acceleratore del dubbio nei confronti di Cesare
Maestri e io mi ritengo soddisfatto di essere arrivato in cima come
seconda cordata ed a soli 22 anni”.
Seduto al suo fianco, Giorgio Spreafico fa evidenti cenni di assenso con
il capo e sorride tranquillo; del resto lui
queste cose le ha riportate fedelmente sul suo libro-inchiesta "Enigma
Cerro Torre" e lo
conferma.
Fa il giornalista di professione questo cinquantaduenne, originario di
Lecco, una delle “capitali” dell’alpinismo di cui ne ha sempre
respirato la passione; è caporedattore de “La Provincia”, un
quotidiano che ha cronache a Como, Lecco, Sondrio e Varese e su cui cura
una pagina settimanale dedicata alla montagna che è diventata un
riferimento per l’informazione del settore.
“Su questa questione i Ragni hanno saputo dare un’indicazione di
stile”.
Poi ci racconta del grande “viaggio” che è stata per lui la
scrittura del libro, di come sia stato la conseguenza di un suo interesse
preesistente e della gran quantità di materiale documentale che aveva
raccolto nel corso di vari anni.
“Rimanevano degli spazi d’indagine, dei buchi da colmare, delle
interviste da fare, ma il grosso del lavoro era già fatto, era
sufficiente completarlo”.
Una sensazione che avevo avuto leggendolo: molto meticoloso,
puntiglioso fin quasi al rigore nel mettere a confronto pareri favorevoli
e pareri contrari, nell’andare a cercare con scrupolo ogni testimone che
potesse aggiungere anche un solo piccolo tassello al suo mosaico di
ricerca; un lavoro che non poteva essere frutto né di fretta, né di
improvvisazione.
"Dopo la proiezione di Daniele, vi presenteremo delle immagini,
anche in parte inedite, e capirete esattamente con che spirito è stato
affrontato questo impegno”.
Con ulteriore curiosità usciamo dalla trattoria e, continuando nella
piacevole conversazione, ci dirigiamo alla sala convegni nel centro
storico di Piacenza.
La presentazione degli ospiti da parte del presidente della sezione
piacentina risulta abbastanza sobria e loro stessi non parlano molto,
preferendo lasciare parlare le immagini.
La sala è praticamente piena e la proiezione inizia in un partecipato
silenzio.
Racconta la storia del Cerro Torre, delle prime spedizioni esplorative,
del primo tentativo da parte di Walter Bonatti e Carlo Mauri, del nascere
di quella rivalità accanita con Cesare Maestri proprio lì in terra di
Patagonia e protrattasi negli anni, dell’ulteriore fallito tentativo del
1970, per approdare infine alla spedizione del 1974 che, ripercorrendo le
tracce del tentativo precedente, dopo due mesi di fatiche ebbe ragione
della parete ovest e mise piede con quattro componenti sulla vetta
innevata, superando per la prima volta, quello è certo, il “fungo”
sommitale.
Le immagini sono spettacolari, le musiche coinvolgenti e le scritte in
sovrimpressione spiegano esaustivamente il procedere della storia, mentre
le immagini dei protagonisti (giovani) del ’74 sono paragonate a quelle di trent’anni dopo (uomini maturi)
a testimonianza che quello che si sta vedendo è anche un documento
storico.
Né manca qualche velato accenno ai dubbi sulla prima salita nel momento
in cui appaiono le immagini dei chiodi trovati di Bonatti e Mauri del
primo tentativo del 1958, quasi a domandare: ma perché quelli di Cesare
Maestri sul versante nord non si trovano?
Sono due ore di avventura totale, un pezzo di storia dell’alpinismo che
ritorna viva, un crescendo di emozione solo rallentato un momento quando
il proiettore smette di dare segni di vita.
Ma Daniele Chiappa si dimostra efficace anche in questa emergenza; ha un
proiettore di scorta e lo posiziona assai rapidamente, fino a che la
storia può riprendere.
Sono due ore intense, emozionanti, ma non è finita.
Nonostante siano le ventitre e trenta, segue la presentazione delle
immagini che spiegano i contenuti del libro “Enigma Cerro Torre”. E’
lo stesso Giorgio Spreafico a commentare le immagini digitalizzate, molte
delle quali autentici documenti inediti, come la foto del ritrovamento dei
resti mortali di Toni Egger, di cui il giornalista si scusa pregando il
pubblico di considerarla nella sua funzione di documentazione storica.
C’è anche una ricca documentazione sui ritrovamenti dei chiodi della
salita di Egger e Maestri, fino a dove ci sono (cioè solamente nei primi
300 metri di parete), ma senza volere emettere sentenze o dare giudizi.
Un’inchiesta in buona sostanza, non un processo e nemmeno una sentenza.
Chi è curioso, fa intuire l’autore, vada a leggersi il libro.
Ad alcune immagini seguono anche palesi commenti del pubblico, non certo
stanco nonostante sia oramai vicina la mezzanotte, tanto che quando arriva
il momento delle domande agli ospiti queste arrivano puntualmente
lasciando spazio ad una coda di serata.
Seguono ancora domande del pubblico a cui Daniele Chiappa risponde con
trasporto:
“Pensate che quando Casimiro Ferrari, il capo spedizione designato,
chiese all’assemblea dei Ragni quanti si sentissero in grado di
affrontare il Cerro Torre e le sue difficoltà estreme sia su roccia che
su ghiaccio, e disposti ad impegnare due mesi del loro tempo alzarono la
mano in venticinque. Ma vi rendete conto? –
incalza con foga – Succedesse oggi la stessa cosa sarebbero in
quattro in grado di alzare la mano.
Non per incapacità, capitemi. Per qualsiasi salita in roccia non ci
sarebbero problemi, ma per una parete di quel tipo oggi mancano le capacità
e l’esperienza. E’ cambiato l’alpinismo, il modo di andare in
montagna: si fa molta palestra, molta falesia, poco ghiaccio. Per noi era
un’altra cosa. Sono cambiati i tempi”.
C’è infine una coda incentrata sulla figura di Casimiro Ferrari (Miro),
definito “l’ultimo re della Patagonia” ed a cui è stato dedicato
anche un libro, perché lui non c’è più, ucciso dal cancro il 3
settembre 2001, all’età di 62 anni.
Daniele Chiappa gli rende un tributo affettuoso e riverente ricordandolo
nelle sue funzioni di capo del gruppo dei Ragni di quella
spedizione:
"La nostra scalata del 1974 è stata possibile grazie alla forza
del gruppo ed alla sua grande unità e spirito.
Era un gruppo con grosse
individualità, c’erano molti galli nel pollaio e non era facile
coordinarli, ma c’era anche un personaggio come Casimiro Ferrari, a suo
modo carismatico e comunque in grado di guidare quel gruppo fino ad
arrivare a mettere i piedi sul fungo del Cerro Torre. L’alpinismo
lecchese, e non solo, gli deve molto”.
Con un ultimo caloroso applauso si conclude la serata e tutti ce ne
andiamo a casa con gli occhi
ancora pieni di ghiaccio, di granito e delle pareti verticali della
montagna “più bella e più difficile del mondo”.
Gabriele Villa
Piacenza, venerdì 15 dicembre 2006
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